Il boia è una figura che deve sparire

Nel mondo ancora 51 Stati applicano la pena di morte non solo come pena per un reato, ma anche come oppressione

Il boia è una figura che deve sparire

Il boia è una figura che deve sparire

Pena di morte. Colpisce parlarne, eppure troppo spesso il silenzio ne circonda ogni singola lettera fino a occultare i nomi dei condannati. Argomento scomodo e difficile, permeato da informazioni talvolta sommarie, magari clamorose ma sempre più difficili da trattare. Oggi sono 51 i Paesi che applicano la pena capitale come estrema di punizione per reati, omicidi, episodi di legittima difesa, o per mettere a tacere chi rivendica i propri diritti e chi si fa sentire esprimendo idee e concetti spesso in contrasto con gli ideali della società e dell’ambiente che li circonda.

Casi diversi, spesso non accertati o non trattati come sarebbe doveroso fare. Sempre gestiti da semplici uomini investiti di potere enorme, ma pur sempre umani e, proprio per questo, non infallibili. Uomini che determinano il destino di altri, troppe volte portando alla morte anche chi è innocente o chi potrebbe espiare la propria colpa senza essere privato della vita. Tanti i casi di vite spezzate ingiustamente, talvolta anche quelle di bambini o ragazzi nostri coetanei. Esseri umani, a volte innocenti, che solo dopo la loro esecuzione e dopo anni di successive indagini, sono stati “graziati” da una nuova e straziante verità: la loro innocenza. Nel corso dell’intervista che ci ha concesso il dottor Davide Giacalone, scrittore e opinionista, abbiamo ascoltato la dolorosa storia di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, accusati e giustiziati negli Stati Uniti nel 1927: solo 50 anni dopo l’esecuzione della condanna furono considerati innocenti. O ancora, le storie più recenti, con le donne come vittime in Iran o Afghanistan.

La pena di morte, per anni, è stata proclamata “in nome di Dio”. Oggi una simile dichiarazione nel nostro mondo occidentale sarebbe blasfema anche se, troppo spesso, è proprio la convinzione religiosa a giustificare una condanna a morte specie nei Paesi africani o asiatici.

Le statistiche ci convincono di quanto privare della vita in nome della legge non sia un valido e sufficiente deterrente alla limitazione dei reati più cruenti, spesso commessi per legittima difesa, a seguito di fatti gravi e ripetuti, conseguenza di gelosie, difficoltà, eventi non premeditati ma istintivi. La giustizia però non può accomunarsi a chi decide di infrangere le leggi e di privare, con le proprie azioni, altri esseri umani della propria vita. Giustiziare consapevolmente in nome della legge non può ridare la vita a chi è stato ucciso ingiustamente. La pena di morte, inoltre, è sinonimo di discriminazione e repressione. Nelle mani di regimi autoritari diviene uno strumento di minaccia che riduce al silenzio gli oppositori politici. Nel 2021 Amnesty International ha registrato 579 esecuzioni in 18 stati, con un aumento del 20 per cento rispetto al 2020. Questo dato ci dimostra quanto sia ancora lunga la strada da percorrere perché tutta l’umanità riesca a comprendere che esistono diversi modi per provare a ottenere il pentimento e la riabilitazione.