DANIELE DE SALVO
Cronaca

Giusy Trovato, le trame della nipote del boss: pizzini nei fazzoletti, falsi pentiti e “rimborsi” dal clan

Galbiate, la donna arrestata e messa ai domiciliari nella maxi-retata antimafia partita da Catanzaro. "Pressioni sull’ex compagno in carcere per interrompere la collaborazione con i magistrati"

A sinistra, Franco Coco Trovato e a destra Giusy Trovato

A sinistra, Franco Coco Trovato e a destra Giusy Trovato

Galbiate (Lecco) – Ci sono uomini d’onore. E ci sono donne come Giuseppina Trovato, Giusy per tutti, 38 anni di Galbiate. Suo zio da parte di padre è Franco Coco Trovato, il boss, 76 anni compiuti il 2 maggio di cui 31 passati in cella al 41 bis dopo essere stato arrestato la mattina del 31 agosto 1992 nel suo ristorante in centro a Lecco, l’ormai famoso “Wall Street”. Mai pentito, non ha mai parlato, considerato “il Totò Riina“ della ‘ndrangheta lombarda, è stato condannato per omicidi, narcotraffico, armi e molto altro ancora. I “picciotti” arrivavano a raccontarsi, per ingigantire nelle loro menti la sua figura criminale, che sciogliesse le persone in una vasca d’acido come Giovanni Brusca con il piccolo Giuseppe Di Matteo.

Giusy è stata arrestata nell’ultima maxi retata antimafia messa a segno in tutta Italia dagli investigatori e dai magistrati guidati dall’ex procuratore della Dda di Catanzaro Nicola Gratteri: secondo loro ha convinto l’ex compagno, un killer della picciotteria, a diventare un pentito solo per ottenere uno sconto di pena e poi a interrompere la collaborazione con i magistrati per non accusare altri affiliati. Quando andava a trovarlo portava fuori dal carcere pizzini con i suoi ordini scritti su fazzoletti di carta. E siccome lui non poteva aiutarla economicamente, ci pensavano altri affiliati o amici di famiglia. Ora Giusy è ai domiciliari. È indagata per concorso esterno in associazione mafiosa.

Giusy era legata sentimentalmente a Danilo Monti, 7 anni più giovane di lui, esponente di spicco della Cosca di Cerva, accusato di aver freddato, il 14 aprile 2015, con tre colpi di pistola a Simeri Mare, il macellaio 35enne Francesco Rosso. Ha confessato e ha rivelato i mandanti, ma non ha raccontato tutto. "E no figlio mio, sennò Danilo era già fuori – sottolinea con orgoglio proprio Giusy in una conversazione intercettata e finita nelle trascrizioni in mano alla Dda -. Non lo permetto nemmeno a una mosca di dirlo". Giusy tiene molto a specificare che il suo ora ex compagno non sia un vero pentito, sebbene abbia parlato con i pm. Arriva persino a inviare ai giornalisti della Gazzetta del Sud e di Catanzaro Informa una rettifica tramite il legale di fiducia: "Ci ho pensato io a mandarla a chi di dovere, non mi va che possano pensare determinate cose - racconta a un’amica -. Che sia pentito di quello che ha fatto va bene, però dire che è un collaboratore di giustizia...".

In ambito criminale prendere le distanze da chi si pente è anche questione di sicurezza: si evitano possibili ritorsioni. Ma stare sul filo del rasoio delle verità che si raccontano può essere una strategia per evitare l’ergastolo: "Ci siamo messi d’accordo: con la dichiarazione che ha dato si è tolto l’ergastolo, ci giochiamo tra i 20 e i 30 anni". In fondo, però, è sempre e soprattutto una questione d’onore. Per questo, ottenuto il risultato - anzi di più, perché la condanna non è stata né di 20 né di 30 anni, ma solo di 17 - Giusy convince Danilo "affinché costui interrompa il percorso di collaborazione di giustizia", si legge negli atti d’inchiesta.

Le carte dicono anche molto altro: ad esempio parlano dei “pizzini" o delle “imbasciate” che Danilo le consegna duranti i colloqui, con ordini e indicazioni "scritte dentro i fazzolettini". Oppure il denaro che Giusy riceve, spesso pretende, per vivere: 600 euro una volta, 500 un’altra, il pagamento della retta dell’asilo per la figlia piccola, le scarpe in regalo, gli aiuti, i debiti condonati perché solo "i quaquaraqua" chiedono denaro alla moglie di un detenuto. È così che si comportano gli uomini d’onore verso le donne come Giusy, nipote di un boss, ex compagna di un assassino, che – spiegano i magistrati – ha apportato un "consapevole e volontario contributo alla conservazione o al rafforzamento delle capacità operative dell’associazione".