
Una scena tratta da “Cosmos”
Milano, 14 giugno 2017 - Era di moda, tra i cinefili duri e puri, Andrzej Zulawski tra fine anni ‘70 e gli ‘80, cinema dell’eccesso, del simbolico, di ossessioni private e di quel vocabolo che passava di bocca in bocca, buono per Herzog, per Coppola, come per Zul (così si abbreviava): visionario. Quando uscì “Possession” (1981) ci fu qualche sconcerto: sottoponeva un’icona dell’amore romantico, Isabelle Adjani, l’intrepida Adele H di Truffaut, alla passione animalesca di un polipone che, in una camera fetida, in una esclusiva relazione di erotica zoofilopedia, grazie a variati e innumerevoli tentacoli operava “al completo”, provocando l’immedicabile gelosia, e orrore, del marito. In realtà Zulawski (1940-2016) fu un autore vero, con le idee assai chiare sul cinema che voleva fare a filo diretto con la dissacrazione delle norme e con temi etici, ed è andato sempre per la sua strada, come scriveva Morandini in quel periodo: «Regista che ignora la linea retta e la calma: violento, sregolato, parossistico, delirante sotto il segno della dismisura e del disordine».
Scomparso un anno fa, poco dopo aver meritato il Pardo d’Oro per la miglior regia al festival di Locarno con “Cosmos”, Zulawski riceve giustamente un omaggio da Fondazione Cineteca (all’Oberdan da oggi al 2 luglio): sei lungometraggi di una filmografia di una dozzina di titoli in 40 anni, a partire proprio da “Cosmos” (anteprima italiana). Tratto dall’omonimo romanzo di Witold Gombrowicz, un giallo a mosaico di citazioni cinematografiche, letterarie, teatrali in atmosfera surrealista, è stato il film del ritorno di Zul dopo 15 anni, da “La Fidelité” (2000, in rassegna), adattamento in chiave moderna di “La Principessa de Cléves” di Madame de La Fayette, intrigo di corruzioni e false virtù per una volta fuori dal fantastico, quarto e ultimo film con la ex moglie Sophie Marceau, prelevata dall’adolescenza del “tempo delle mele” a soli 18 anni (hanno un figlio e due romanzi biografici alle spalle).
A completare la personale dell’autore, “L’importante è amare” (1975) con Romy Schneider; da un romanzo di Christopher Frank, dove un’ attrice costretta a ruoli pornografici s’innamora di un fotografo che la procura una parte in “Riccardo III”: cinema, teatro e letteatura in un discorso sull’attore che si ripresenta in modo diverso in “La Femme publique” (1984) con Valerie Kaprinski, aspirante attrice in un universo dove l’eccesso e la provocazione sono la norma. Infine, “L’amour braque - L’amore balordo” (1985), il primo dei film con la Marceau, libero adattamento di “L’idiota” (1869) di Dostoevskij in chiave gangsteristica nella Parigi anni ‘80. Un film frenetico, datato fin che si vuole, ma pieno di vitalità, un Dostoevskij bizzarro in linea con la passione permanente per lo scrittore russo: in “La femme publique”, la protagonista diventa una star tornando sul set nel ruolo di Liza di “I demoni”.