
Alcuni degli oggetti personali dei migranti morti, recuperati dopo i naufragi
È una stanza improvvisata, buia, con le mura fatte di drappi scuri. C’è uno schermo liquido tutt’intorno, che ti immerge nel mare, e i suoni sono quelli del riverbero delle onde, dello scroscio dell’acqua sulla chiglia dell’imbarcazione. Poi un attimo di silenzio. Ci si inabissa. E sott’acqua non senti nemmeno le urla dei fratelli che non sanno nuotare. Vedi pian piano risalire oggetti e speri di fare in tempo, di non esaurire il poco ossigeno che hai fatto in tempo a incamerare. Ma risalire a cosa serve per chi non sa nuotare? E anche se sai farlo, quanto resisterai? E chi ti salverà? E perché non sei rimasto a casa? Sono queste le sensazioni, dure, che la mostra immersiva allestita all’Università Statale di Milano regala, a chi vuole almeno per un momento provare a immaginare cos’è successo quel 18 aprile 2015, quando un peschereccio partito dalla Libia si inabissò nel Mediterraneo, lontanissimo dalla riva, a 400 metri di profondità, con un carico di mille sogni, di mille anime, di mille speranze disattese. E il convegno di tre giorni “Un nome, non un numero“, organizzato nell’Aula Magna di via Festa del Perdono, 7 a Milano, dall’Università Statale, non è solo una stanca passerella di chi quel giorno c’era, di chi ha lavorato per recuperare i cadaveri, di chi ha lottato perché quella tragedia avesse la giusta eco. È un modo per affermare un concetto che può sembrare marginale e che è invece fondamentale: il diritto all’identità.
Un diritto per noi ovvio e che è invece negato a corpi che il mare ruba e gonfia, condannando all’oblio. La Missione Melilli che l’allora Governo Renzi avviò, insieme al Labanof, il Laboratorio di Antropologia e odontologia forense della Statale, puntava anche a questo, a dare cioè un nome a quei corpi. "Un nome, non un numero", una mostra che termina oggi ma il cui riverbero sarà quello di dare inizio a un nuovo sentire, a un nuovo concetto di dignità e umanità, al bisogno di dare almeno pace ai parenti delle vittime. "L’identità è quanto di più caro abbiamo – spiega Cristina Cattaneo, docente della Statale, medico legale e responsabile scientifico del Labanof – e restituire un nome vuol dire restituire i diritti. Nessuno dovrebbe esserne privato. L’evento nasce per onorare le vittime e per raccontare che dietro ogni corpo recuperato in mare esiste una persona, una storia e qualcuno che aspetta risposte". E a cercarle è stata Angela Caponnetto, giornalista Rai che ha moderato l’incontro, al quale hanno partecipato, fra gli altri, il Presidente di Italia Viva, Matteo Renzi, l’Ammiraglio della Marina Militare, Pietro Covino, il Prefetto Saverio Ordine e tanti altri protagonisti della Missione Melilli. La voce della Caponnetto, da anni in prima linea nel raccontare il fenomeno delle migrazioni, era rotta dall’emozione, ed era anche la voce di chi non ne ha più una. E quante domande lanciano quegli oggetti così miseri e "quotidiani", che da una teca raccontano un pezzetto di vita di corpi imbustati, nell’atrio dell’Università. Una sacca verde, e lì sotto una sagoma accennata. Poi una scheda, traccia biografica scritta grazie al Dna. "L’odore della morte ancora lo ricordo", rammenta il prefetto Vittorio Piscitelli, già commissario straordinario per la gestione del fenomeno delle persone scomparse. Certi odori hanno memoria, e quella dei cari che non ci sono più è eterna. Antonio Petrucci