
L’attore Luigi Lorenzo Alberti, in arte Gigio, è nato a Milano 68 anni fa
Gigio Alberti, uno di noi. Con quell’ansia tutta milanese, l’anima scanzonata nascosta sotto il lavoro, gli impegni, le maschere. Se si viaggia intorno ai 50/60 anni, è in assoluto uno degli attori più generazionali in circolazione. Colpa di Salvatores: lui il Cedro di Marrakech Express, lo Strazzabosco di Mediterraneo. Da allora cinema, un po’ di tv, parecchio teatro. Come martedì al Cooperativa con “Ahi! Sudamerica“. Un reading. Da Cortazar, Soriano, Rodrigo Garcia. Una passeggiata in orizzonti lontani. In compagnia anche della musica di Raffaele Kohler e Luciano Macchia.
Gigio, perché il Sudamerica?
"È stata la proposta di un festival, uno spunto che mi ha portato a leggere questi autori straordinari. E inizialmente con la scusa che uno dei racconti di Soriano era sul calcio, pensavo di fare una riflessione più vicina al tema dello sport che caratterizza la stagione del Cooperativa. Ma poi devo ammettere che ho preferito altre pagine".
Quali?
"Non sono libri che passano e ne vanno. Chiedono di restare, di tornare ad aprirli. E fra questi stralci ci sono due monologhi incredibili tratti da “Note di cucina“ di Rodrigo Garcia, un testo che venticinque anni fa interpretai all’Out Off per la regia di Lorenzo Loris. Solo che all’epoca quei monologhi li faceva Mario Sala, io lo ascoltavo dal camerino e un po’ rodevo, perché le mie parti non erano così belle. Diciamo che mi sono preso un tempo per la vendetta…"
Cortazar?
"Un genio. Credo che la sua scrittura sia proprio di un altro livello. E mi colpisce sempre questa capacità di creare mondi visionari, fantastici. Eppure ogni volta con delle caratteristiche concrete, che li rendono in qualche modo reali. Tutta la “passeggiata“ rimane comunque abbastanza leggera, anche quando si sfiorano quelle ragioni politiche che portano alcuni di loro ad espatriare, ad allontanarsi dalle dittature".
È mai andato da quelle parti?
"Mai! Sono come Salgari, vivo di fantasie. Avrei anche la struttura del viaggiatore, sto bene un po’ dappertutto. Ma sono un pigro e un ansioso e quindi l’idea di viaggiare mi risulta faticosissima".
Che delusione: per colpa di Salvatores ce la si immagina sempre ad attraversare il deserto in macchina...
"Lo so, passo per l’avventuriero. In realtà non mi si smuove da Milano".
Il teatro quando lo scopre?
"Con Paolo Rossi, durante un corso di mimo. Erano anni in cui il teatro ufficiale veniva contestato con una certa forza, si cercavano alternative alla parola. E il mimo andava abbastanza di moda. Alla fine del corso Paolo mi propose di fare uno spettacolo insieme. Lo portammo dai Colla, dove lui lavorava come marionettista. Avevamo chiesto a un tizio di trovarci un po’ di pubblico, fare il giro delle scuole. Ma due giorni prima del debutto ammise di non avere fatto nulla. Andammo in scena per amici e parenti. Non avevo comunque questa grande passione".
Niente sacro fuoco?
"No no, è stato tutto graduale. E in questo devo ringraziare molto Lorenzo Loris e l’Out Off. Poi invece, dopo “Comedians“, è iniziata la collaborazione con Salvatores e l’avventura del cinema, una di quelle cose a cui non avrei mai pensato".
Che periodo è stato?
"Divertentissimo, fortunato. Abbiamo fatto una serie di film capaci di segnare una generazione e non solo, almeno ad osservare l’entusiasmo con cui mi fermano un po’ tutti. Credo che il lavoro di Salvatores abbia simboleggiato un’idea di viaggio oggi non più praticabile, anche in termini di scoperta, di libertà. Era magica poi l’atmosfera che si creava intorno al film, quella sensazione di profonda amicizia che durava magari solo una manciata di mesi ma che sul set si viveva con forza e naturalezza".
Il ruolo a cui è più legato?
"Il monologo “Zitti tutti!“ di Raffaello Baldini, grandissimo poeta di Santarcangelo, che scriveva in italiano e dialetto romagnolo. L’ho scoperto per la prima volta 45 anni fa grazie a Ivano Marescotti. Da allora non ho più smesso di farlo".
Il progetto di cui si pente?
"Tanti nascono storti e storti finiscono. Altri invece pian piano li raddrizzi, è una delle grandi possibilità che ti offre il teatro. Però ricordo una replica a Trento de “Il ceffo sulle scale“ di Joe Orton, sempre con Loris. A fine spettacolo ci fu un applauso, nel senso di un solo battito di mani. Un applauso e poi il silenzio. E guarda che il teatro è tremendo quando succede. Nelle serate in cui va bene non credo ci sia droga migliore. Ma quando percepisci che quel che stai facendo non piace, ti strazia il cuore come niente al mondo".
Un minuto dura un’ora.
"Già. Con la consapevolezza che devi pure rifarlo il giorno dopo e quello dopo ancora. Un incubo".