
Francesco De Gregori
Milano, 22 luglio 2018 - «Per scrivere canzoni non c’è una ricetta, se no ne farei una al giorno» ha ammesso ieri Francesco De Gregori in redazione a Il Giorno, nell’attesa da salire sul palco del Carroponte. «A volte tutto inizia da una frase, da un titolo, da un accordo, da una linea melodica che mi viene in mente. Spesso sento le canzoni di un altro e mi dico: bella, la devo rubare. Poi quello spunto inizia a prendere una nuova strada».
Il giro di concerti finisce il 3 settembre. Poi tour invernale nei teatri?
«No, lo escludo. Però mi piacerebbe stare per più giorni consecutivi nella mia città, in un posto molto piccolo da 200-250 persone e fare qualcosa di simile allo spettacolo portato a Broadway da Bruce Springsteen. L’idea ce l’avevo da molto, ma lui l’ha realizzata prima».
La sua canzone migliore?
«Difficile rispondere. Ti affezioni a certe canzoni perché magari hanno avuto successo. Forse “Alice”, per come l’ho scritta e perché nel ’72 nessuno si poteva aspettare una canzone così in Italia. Mi chiedo perché la gente ancora la canti e la passino in radio».
Tre artisti che ama particolarmente?
Ho visto recentemente un concerto di Vasco a Roma e sono rimasto impressionato. Lui è uno di quelli che ha rifondato la musica italiana in maniera divertente e colta. Con Lucio Dalla ho convissuto a lungo e ho capito che il suono delle nostre due voci insieme era buono, brillante, onesto. Mi ha insegnato parecchio. E poi Lucio Battisti: è stato un fondatore della musica italiana. Ma vorrei tornare indietro a quel mondo degli anni ’60 per citare Rita Pavone, Nicola Di Bari, i primi gruppi come i Rocks o gli Equipe 84. Da ragazzino uno pensa di fare il calciatore, il pompiere, il corridore automobilistico, mentre io pensavo di fare il cantante e, stranamente, questa cosa s’è avverata».
Tra i brani che le sono piaciuti negli ultimi anni c’è pure “Comunisti col Rolex”.
«Fedez mi chiese di cantare l’introduzione di quel pezzo. Gli risposi: ‘Mi piace, ma vuoi che mi menino?’ Però lo trovo un ragazzo simpatico».
Sa che fa ascoltare le sue canzoni al figlio Leone?
«Speriamo che non lo rincretiniscano».
Ha mai avvertito il peso di essere Francesco De Gregori.
«Un po’ sì, perché incontro persone che non ho mai frequentato a cui sto particolarmente simpatico o antipatico, e mi chiedo perché. Questo un po’ deforma il rapporto normale che si crea tra le persone ma la cosa non mi ha mai fatto soffrire troppo, perché fa parte del mio lavoro e il più delle volte è anche gratificante. Se vai in banca a cambiare un assegno e sei De Gregori te lo cambiano prima».
Qual è la cosa meno “da De Gregori” che ha fatto in vita sua?
«Andare al mare a Ostia in mezzo agli altri bagnanti, con quello che mi dice: ‘Sei tu?’ E io gli rispondo: ‘Guarda che non sono io’».
Dopo l’esibizione al Lucca Summer Festival la stessa sera di Dylan, il suo mito di sempre, arrivò la chiamata: «Guarda che Bob ti vuol conoscere» mentre era già in auto. Perché non tornò indietro?
«Non ci ho creduto. E credo di aver fatto bene, perché secondo me c’era pressione da parte di giornalisti, manager, addetti ai lavori, perché l’incontro avvenisse. Stare trenta scondi con Dylan può essere interessante, ma non mi cambia la vita. Io ho passato la mia esistenza con le canzoni di Bob Dylan e quello è stato veramente importante».
Una sua massima è che se uno ha talento sopravvive pure ai talent show.
«Confermo».
Perché a gennaio ha pubblicato su Facebook una foto dei Real World Studios di Bath?
«Ho registrato una versione di “Anema e core” con Chicca, la band e lo Gnu Quartet. Uscirà dopo l’estate. Ho scoperto che l’hanno registrata tutti, anche quelli con una pronuncia napoletana molto peggiore della mia».
Si è tolto uno sfizio.
«Visto che con la musica vivo bene, posso farmi dei regali. E quando ho un’idea non mi pongo il problema della sua redditività. Come un pittore che ha venduto diversi quadri e vuol comprarsi dei pennelli costosi o dei colori rarissimi: lo fa, e se il quadro poi non venderà, amen, tanto ha già venduto quelli di prima».
Al debutto del tour Dalla-De Gregori, Lucio disse: «De Gregori mi sta antipatico». Come la prese?
«Lui era così. Avevamo due caratteri molto diversi, lui dannunziano in certi atteggiamenti, un esteta che amava circondarsi di persone, un po’ il contrario di me. Però musicalmente ci siamo sempre stimati. Amava i paradossi, alcuni dicevano fosse un grande bugiardo, ma in realtà era un grande inventore. Come Fellini».
Antonello Venditti in “Francesco” le chiese scusa, invitandola di tornare a suonare ancora assieme come ai tempi del debutto comune tra i solchi di “Theorius Campus”.
«Con lui ho sempre avuto un rapporto “dispari” perché fra noi c’è una grande diversità di carattere, voce, e nel modo di scrivere le canzoni. Però ogni tanto ci vediamo e cantiamo qualche cosa assieme. Sembra ci riesca anche bene. Sia lui che Lucio sono amici con cui ci siamo presi e lasciati tante volte nel corso di questi 45 anni. Sarebbe stupido negare che fra noi ci sono momenti d’incomprensione, di attrito, di rivalità, d’invidia, però Antonello rimane uno degli artisti italiani che stimo di più».
Fu Venditti a riconvertirla romanista dopo una gioventù nerazzurra.
«Tifavo l’Inter di Herrera, quella che vinceva tutto e di cui tutti ricordano ancora la formazione, io pure. Mi schierai col vincitore, poi mi disinteressai perché la politica prese il sopravvento e interessarsi di pallone sembrava, stupidamente, un cedimento alla sensibilità borghese. E poi Antonello mi contagiò con suo amore per la Roma, che è rimasto grazie anche ai suoi meravigliosi inni. Tutto il mondo glieli invidia, pure io».
Fino a quando pensa che scriverà e canterà?
«Fino a quando mi divertirò e la gente verrà a sentirmi. Quindi, al momento, direi per sempre. Non è che faccio il pilota di Formula 1 o il calciatore, mestieri in cui l’anagrafe interviene spietatamente e dice a Totti che deve smettere. Nel mondo dell’arte e della musica non c’è un tempo per la pensione».