
La band celebra trent’anni all’Arci Bellezza: "Raccontiamo quel che siamo stati e come siamo diventati. Per tornare sulla strada non volevamo aspettare l’uscita del nuovo album prevista per l’autunno".
Scorri le classifiche, brucia le classifiche "…e, al limite, spara a quel deejay". Nel nuovo singolo “Nazisti dell’Illinois” i Delta V ironizzano sul presente strizzando l’occhio ai Blues Brothers nell’attesa di planare a Milano in concerto giovedì prossimo sul palco dll’Arci Bellezza. A parlarne è Carlo Bertotti, fondatore trent’anni fa della band assieme all’ex compagno di banco Flavio Ferri, affiancati oggi da Marina “Marti” Albertini, voce, Nicola Manzan, chitarra e violino, Simone Filippi, batteria.
Partiamo da “Nazisti dell’Illinois”, che vi ha fatto il povero deejay?
"Si tratta, ovviamente, di una metafora che usa la figura del deejay come tramite per raccontare la visione di una musica che in questi anni, più che arricchirci, ci ha tolto qualcosa, appiattendosi in modo imbarazzante su sé stessa. E deejay sono quelli che quella musica la mettono, in radio o nelle loro serate".
Visto che il vostro ultimo album rimane “Heimat”, guardando alle cose con l’occhio del cinephile com’è stato il passaggio da Edgar Reitz a John Landis?
"La nostra musica ha un sacco di riferimenti all’immaginario cinematografico e l’opportunità di tirare in ballo quei nazisti così farseschi, grotteschi, sciocchi, ma anche pericolosi raccontati dal film di Landis con Aykroyd e Belushi era troppo ghiotta per lasciarsela sfuggire. Così ci siamo detti: perché non usare pure una figura del genere per raccontare questo nostro senso di mancata appartenenza?".
Se i nazisti dell’Illinois un sorriso lo strappano, le storie partigiane raccontate ne “Gli ultimi”, i tre documentari sulla Resistenza che ha realizzato nel 2018 assieme a Marti e a Lorenzo Bertotti, avevano decisamente altri connotati.
"Abbiamo realizzato ‘Gli ultimi’ durante la lavorazione di ‘Heimat’ in un paesino dell’entroterra imperiese dove siamo entrati in contatto con alcuni ex partigiani; la storia di Silvio Bonfante, detto il “Cion”, raccontata in uno dei documentari è affiorata dalle loro testimonianze. Negli stessi giorni ci è capitato di conoscere alcuni sopravvissuti alle stragi nazifasciste di Testico e di Torre Paponi e abbiamo raccolto pure i loro ricordi. Vuoi per l’età, vuoi per il Covid, sono mancati quasi tutti di lì a qualche anno e questo accresce il valore del lavoro fatto. D’altronde mio padre è stato partigiano nella Divisione Clavesana ‘Giustizia e Libertà’, e le vicende della Repubblica Sociale sono sempre state molto vive in casa mia; ora con Martina stiamo montando le interviste che abbiamo ancora da parte con l’intenzione di realizzare un nuovo documentario mossi dalla convinzione che se la memoria non viene alimentata di continuo finisce col perdersi".
Rischio percettibile di questi tempi. E non solo in Italia.
"Oggi come oggi non riesco ad immaginarmi qualcuno in orbace, col fez, che marcia su Roma e neppure un ritorno del fascismo così come raccontato a teatro da Massimo Popolizio; a preoccuparmi è l’eccesso di autoritarismo che c’è nella nostra democrazia. Non ci rendiamo conto che giorno dopo giorno le libertà individuali si stanno assottigliano sempre più per l’assenza di un reale dibattito politico".
Ha detto che preparare questo show è stato come incidere un disco. Perché?
"Per tornare sulla strada non volevamo aspettare l’uscita dell’album che abbiamo in cantiere e contiamo di pubblicare in autunno, così abbiamo pensato di raccontare a chi verrà ad ascoltarci quello che siamo stati e che siamo diventati attraverso i nostri ascolti; questo riscrivendo le canzoni per sottolineare negli arrangiamenti l’impronta dei grandissimi che ci hanno ispirato".