DIEGO VINCENTI
Cultura e Spettacoli

Branciaroli è Macbeth allo Strehler: "Per me il teatro è carne e sangue"

«Per me il teatro è carne e sangue. In questo periodo invece mi pare una roba vegetariana». Entra a gamba tesa Franco Branciaroli

Franco Branciaroli in scena con la tragedia “nera” di Shakespeare

Milano, 18 ottobre 2016 - «Per me il teatro è carne e sangue. In questo periodo invece mi pare una roba vegetariana». Entra a gamba tesa Franco Branciaroli. Non si tiene un cecio in bocca, come dicevano i nonni. Mai noiose le chiacchierate con lui. E in questo caso il pretesto è il “Macbeth” di cui firma anche la regia, da stasera allo Strehler affiancato sul palco da Valentina Violo, oltre a Tommaso Cardarelli, Daniele Madde, Stefano Moretti, Livio Remuzzi, Giovanni Battista Storti e Alfonso Veneroso (info: 02.42411889). Tragedia del potere? No, del nichilismo. Almeno a lasciarsi sedurre dal punto di vista dell’attore milanese.

Branciaroli, di nuovo Macbeth. «Sì, è la seconda volta che lo interpreto, la prima che lo dirigo. Macbeth è un animale strano: è l’opera più breve, somiglia a una tragedia greca, la più semplice per la regia, la più difficile da interpretare. Anche perché a parte la Lady, gli altri personaggi sono di contorno, sbiaditi. Tutto ruota intorno a questo essere umano etichettato come “assetato di potere” ma che in realtà non ha nulla da spartire con un Riccardo III. Il vero aspetto che lo caratterizza, è questo amore nei confronti del niente. Altro che potere».

Quindi un nichilista? «Esattamente. Poi certo, lui si incammina verso il potere, chi non lo farebbe? Ed è lungo la strada che emerge davvero quello che si è: Macbeth non sa fare il re, non conosce le gerarchie, non sa nemmeno dove sedersi a un banchetto, il vestito gli è troppo largo, c’inciampa. Lui non vuole il potere, vuole la distruzione del mondo».

Addirittura? «È uno che afferma: “Comincio ad essere stanco del sole, vorrei che la struttura del mondo si sgretolasse“. E man mano che procede, tutto ciò che è alle sue spalle scompare. Una cosa che ovviamente non si può vedere, è l’attore che fa tutto, non il regista. E non a caso anche i più grandi sono sempre inciampati in Shakespeare. Tu come spettatore devi solo sperare che l’attore sia all’altezza, che riesca a mostrarti quest’amore per la distruzione gratuita, per il gesto in sé».

E lei invece quanto ama Shakespeare? «Moltissimo. E mi spiace non poterlo gustare nella sua lingua. Il testo è una melodia di campane: dong è il segnale per l’omicidio, “done” significa in inglese “fatto”, Duncan è il nome del re, Dunsinane il castello. Una musicalità che ci dà la misura di come sia il più grande poeta di tutti i tempi. Sono convinto che se il ministero facesse un progetto ben finanziato, di alto livello, per portare in scena soltanto Shakespeare per cinque anni, renderemmo più “civilizzato” almeno l’1% degli italiani. Purtroppo non si può fare».

Mi sembra di capire che non lo considera un gran momento. «Il teatro è sempre stato così, pochi alti e molti bassi. Dorme per decenni e poi spara fuori tutti insieme Brecht, Ionesco, Beckett. D’altronde lo Stato non paga, le risorse sono pochissime, i grandi registi scompaiono, le drammaturgie sono esili. Adesso mi pare un periodo di sonno profondo, come fossimo in manutenzione ma senza soldi. Si aggiusta tutto ma con scotch e fil di ferro...».