ANDREA SPINELLI
Cultura e Spettacoli

Batiste, un maestro del XXI Secolo: "Sì può reinventare pure Beethoven"

Presto al Dal Verme il compositore Usa vincitore di 5 Grammy e un Oscar per la colonna sonora di “Soul“ "Non è col rigore che una partitura vince la sfida col tempo. Mi confronterò anche con la tradizione italiana".

Jonathan “Jon“ Michael Batiste, cantautore, pianista e compositore, 38 anni

Jonathan “Jon“ Michael Batiste, cantautore, pianista e compositore, 38 anni

"Più che un concerto di piano solo il mio è un flusso di coscienza che cattura l’energia del momento e prova a trasformarla in uno spettacolo che parte dalle mie composizioni per arrivare a quelle di Mozart, ai Beatles, Beethoven o Thelonious Monk" racconta in videocall Jonathan Michael Batiste, per tutti semplicemente Jon, parlando del “Maestro Tour” che il 15 giugno lo deposita sul palco del Dal Verme, preceduto dall’allure che hanno saputo creargli attorno 5 Grammy e l’Oscar vinto tre anni fa per la colonna sonora del film d’animazione Disney/Pixar “Soul”. Se Batiste stia realmente "ridefinendo l’espressione musicale nel XXI secolo", come sostiene la rivista Time, è da vedere; di sicuro però quel mix di jazz, classica e pop, sommato alla convinzione che la collaborazione musicale "ci renda tutti più umani", ha una sua dirompente forza attrattiva. Per Batiste il tour arriva dopo la composizione della colonna sonora per il film di Jason Reitman “Saturday Night” e dopo essersi unito come giudice a Mika e Claudia Winkleman nella terza serie del reality inglese “The Piano”, in onda su Channel 4.

Jon, qual è il suo rapporto con l’Italia?

"La scorsa estate ho cantato al Teatro del Silenzio di Lajatico assieme ad Andrea Bocelli, voce divina, capace di catturare la bellezza, la sincerità e la forza della verità, ma ai tempi dell’università ho passato tre estati nel vostro paese a studiare e comporre musica, quindi, con tutta probabilità, a Milano non mancherò di confrontarmi pure con la tradizione italiana".

Venendo da una famiglia di musicisti, la sua era una strada praticamente segnata.

"La mia connessione naturale con la musica è arrivata attraverso canali diversi. Papà Michael, bassista e cantante al fianco di colossi come King Floyd, Jackie Wilson e Isaac Hayes, è stato il mio primo mentore musicale, anche se il piano me l’hanno insegnato prima Shirley Herstein, poi Ellis Marsalis (padre di Wynton, Branford, Delfeayo e Jason, vera e propria dinastia del jazz di New Orleans, ndr), oltre a quel Roger Dickerson che mi ha avviato sulla strada della composizione".

Nel suo ultimo album, l’ambizioso “Beethoven Blues (Batiste piano series vol.1)”, mette le mani sulla musica del titano di Bonn. Mondo della classica spiazzato?

"Penso sinceramente che certe composizioni siano patrimonio di tutti e che la loro maggiore o minore “sacralità“ stia solo nell’orecchio di chi le ascolta. Quelle partiture hanno oltre 250 anni e reinventarle significa mantenerle vive. Non credo, infatti, che il rigore preteso a volte da più parti le aiuti a vincere la sfida del tempo. E poi sono brani come “When the saints go marching in“, che eseguo spesso pure io, o altri spiritual scritti dai miei antenati, che trovano di continuo nuove versioni. Questo credo faccia parte del loro essere popolari. Tant’è che ci ho messo un giorno e mezzo a registrare questo disco, anche se dopo una preparazione abbastanza lunga".

Due Grammy li ha vinti quest’anno per il personalissimo documentario Netflix “American Symphony”, prodotto nientemeno che dall’ex coppia presidenziale Barack e Michelle Obama.

"Il film si proponeva di cogliere il processo creativo della sinfonia a cui stavo lavorando nell’attesa di farla debuttare alla Carnegie Hall, quando mi sono ritrovato in ospedale perché a mia moglie (la scrittrice Suleika Jaouad, ndr) era stata diagnosticata una recidiva della leucemia che pensava aver sconfitto una decina di anni prima, con conseguente necessità di doversi sottoporre al trapianto di midollo. Incrociando la narrazione artistica con quella personale di un 2022 per me tanto esaltante (oltre all’Oscar, la candidatura a undici Grammy, ndr) quanto drammatico, ne è uscito un lavoro estremamente autentico e vulnerabile, che ha commosso gli Obama spingendoli alla decisione di produrlo. Non me lo sarei mai aspettato".

A proposito di presidenti, al Super Bowl ha intonato l’inno americano “The Star-Spangled Banner” davanti a Donald Trump. Di questi tempi pensa che la bandiera a stelle e strisce sventoli ancora "sulla terra delle libertà e sulla casa degli impavidi"?

"Penso sia compito dell’artista cogliere e rappresentare i sentimenti della gente. E sono convinto che in tempi difficili, di divisioni come quelli che stiamo vivendo, certe musiche possano aiutare a ricordarci chi siamo e riportarci tutti sotto lo stesso tetto. Come nella parabola del figliol prodigo. Insomma, ho cercato di andare oltre le contrapposizioni usando l’inno come elemento di unione e di solidarietà".