GIANNI BIONDILLO*
Cronaca

Viaggio dentro Milano: metamorfosi di una città

L’esplosione edilizia e l’ascensore sociale fermo: alle origini di un’inchiesta

Milano, metamorfosi di una città (illustrazione di Giancarlo Calligaris)

Milano, metamorfosi di una città (illustrazione di Giancarlo Calligaris)

Milano, 19 luglio 2025 – Forse il crollo della scritta ‘Generali’ sulla copertura del grattacielo di Zaha Hadid è la giusta metafora di quello che sta passando Milano in questi giorni. La scossa tellurica innescata dalle indagini della procura è come se avesse raggiunto la cima dei grattacieli che hanno caratterizzato il nuovo, moderno skyline urbano, per dimostrarne la fragilità.

Tutto nasce dalle denunce degli abitanti di un condominio in Piazza Aspromonte che hanno visto crescere nel cortile di casa un palazzo di sette piani in sostituzione di un semplice magazzino. Con una ‘Scia’, cioè una pratica ordinaria che non prevede piani attuativi e oneri di urbanizzazione. Per chi non è del mestiere: costruire il nuovo, dalla legge urbanistica del 1942, prevede che il privato che sta aumentando la sua ricchezza restituisca qualcosa alla città che glielo ha permesso. Per costruire fogne, infrastrutture, asili, scuole. Va bene tutelare la proprietà privata, ma occorre anche che il bene collettivo non venga depauperato.

Nel Novecento, quando l’ago della bilancia pendeva verso l’interesse pubblico, ci sono state politiche urbane di natura socialista, quando l’ago della bilancia pendeva verso l’interesse privato di natura liberista. Poi c’è stata Tangentopoli e l’Italia s’è rotta.

Non per colpa di chi ha scoperchiato il verminaio, ma per l’ingordigia di chi da sempre ci sguazza dentro. Non vorrei sembrare determinista, ma la natura familista, opportunista, amichettista della classe dirigente (politica e imprenditoriale) italiana è la stessa da sempre, da Giolitti passando per il fascismo e transitando per la Democrazia cristiana. Tutto in perfetta continuità. Per capire l’Italia occorre guardare cosa fa Milano. Nel bene o nel male (spesso nel male).

Milano, ancora alla fine del secolo scorso, era una città popolare che stava dismettendo il suo patrimonio sociale, quello degli operai, senza sapere in cosa trasformarsi. Ci ha pensato il turbo capitalismo globale di inizio millennio a dare alla città una nuova narrazione: diventare cool, moderna, competitiva, esclusiva, seducente. Expo2015 fu la scommessa per fare di Milano “a place to be”. L’orgoglio dei milanesi si gonfiò a dismisura.

Essere una città europea, esserlo perdavvero, valeva qualunque sacrificio. Che poi scrivo “milanesi”, ma in concreto di chi sto parlando? Da inizio millennio, invertendo un trentennale trend negativo, la città ha visto aumentare i suoi residenti di centomila unità. Ma la cifra, detta così, non spiega nulla. La verità è che in questi decenni sono andate via quattrocentomila persone e ne sono arrivate cinquecentomila. Questo significa, in soldoni, che un milanese su tre trent’annifa non abitava a Milano. Che, culturalmente, socialmente, antropologicamente, Milano non è più la città della mia gioventù.

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Chi è andato via, chi è arrivato? Sono arrivati studenti da tutta l’Italia, drenando talenti dal resto del Paese (mentre i loro coetanei milanesi partono per le università straniere), sono arrivati i neoricchi (dal finanziere al calciatore all’influencer) che hanno spostato la loro residenza qui per usufruire della flat tax voluta dal governo Renzi. Sono arrivati i residenti temporanei, i turisti, gli affaristi.

È andato via il ceto medio istruito ma economicamente proletarizzato della piccola borghesia: impiegati, terzo settore, artigiani, insegnanti. Non ce la fanno più, la città è troppo cara, i costi sempre più proibitivi. Chi non s’è mosso sono stati i residenti della ZTL e gli ultimissimi, i residenti dei quartieri popolari, pensionati, extracomunitari, che vivono in condomini fatiscenti. Per loro non è cambiato niente, Milano li aveva già esclusi.

Nel Novecento la classe operaia aveva un peso negli equilibri della politica urbana, oggi la produttiva piccola borghesia soffre e il proletariato non c’è più. È il sottoproletariato che è aumentato a dismisura, aprendo ulteriormente la forbice della disuguaglianza. Ricchissimi e poverissimi. Che non si conoscono anche se abitano gomito a gomito (Milano è una città piccola e densa).

I padri di chi oggi vive nelle zone ZTL erano imprenditori che investivano, producevano, innovavano e restituivano alla città ricchezza. Era una narrazione vincente: siamo tutti sulla stessa barca, produrre significa non solo far arricchire “i padroni”, ma anche permettere agli ultimi arrivati di emanciparsi. All’industriale, intriso di paternalismo socialista o cattolico, interessava avere dei dipendenti appagati dalla societa consumista. Oggi i loro figli, che non producono più nulla, che fanno soldi in borsa, che usano la città solo come scalo fra Londra, Francoforte, New York, a loro quali siano le condizioni abitative a Quarto Oggiaro o in Comasina è di nullo interesse, a meno che non ci sia un ritorno economico.

Vedi il quartiere ultrapopolare di San Siro, una volta in estrema periferia e ora praticamente in centro.  D’improvviso, entrato nel mirino della speculazione edilizia, oggi è raccontato come la casbah dell’illegalità, della droga, del pericolo. Fioccano progetti di “rigenerazione urbana” che si traducono, nei fatti, in demolizioni a tappeto del patrimonio edilizio pubblico per poi affidare ai privati la ricostruzione di case di pregio.

Ovviamente che fine facciano gli abitanti del quartiere non interessa a nessuno, si cerchino un posto dove andare, meglio se fuori città. Gentrificazione, si chiama questa operazione di pulizia etnica. E, vi assicuro, non c’è nulla di nuovo. Già sotto il fascismo, a Torino, Milano, Roma, Napoli, eccetera, si è permesso che il capitale privato estraesse ricchezza dalla città pubblica, estromettendo gli strati popolari dalle zone di pregio e accrescendo una classe di piccoli proprietari da fidelizzare al regime.

Questo difetto intrinseco (l’interesse privato che vince su quello pubblico), questa attitudine al “particulare”, all’amichettismo, questo risolvere tutto “all’italiana” è la nostra malattia endemica, mai eradicata. La “Vienna rossa” socialista di inizio Novecento ha prodotto una città dove ancora oggi circa l’ottanta per cento degli abitanti vive in case in affitto o sovvenzionate. A Milano è solo il venticinque per cento. In Italia siamo tutti proprietari. Perché quello che conta è ciò che è mio. Ciò che mio non è, non esiste.

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Le politiche urbane delle amministrazioni che si sono susseguite in questi ultimi trent’anni, di centrodestra come di centrosinistra, sono in perfetta continuità. Non importa in fondo quale colore politico governi la città. Si può cambiare la politica partitica, a Milano, ma non la politica urbanistica.

Gli slogan identitari, giusto per dare una minima differenziazione agli schieramenti, sono orpelli sovrastrutturali. C’è chi batte il tamburo sulla sicurezza, sugli stranieri, sulla tradizione e allora è genericamente di destra. Chi invece sui diritti civili, sull’inclusività, sull’ecologia e diventa genericamente di sinistra. Ma nei fatti nessuno deve intaccare il nòcciolo, cioè che è più importante il valore di scambio (la casa come affare) che il valore d’uso (la casa come diritto). I politici di ogni schieramento cercano i voti di chi va a votare. Non gli studenti, non gli extracomunitari, non gli abitanti dei quartieri popolari.

Cercano di rabbonirsi i cittadini di media e piccola borghesia, mediamente istruita, mediamente proprietaria. A loro è stata regalata, vent’anni fa, la narrazione della città irta di grattacieli e modernità dove tutti potevano diventare influencer, per loro sono stati costruiti tutti gli edifici che hanno densificato fino allo stremo la città.

Comprate casa nel “place to be”, non perdete questa occasione, questo affare (durante la pandemia, solo a Milano il costo delle case ha continuato a crescere), perché poi le metterete a reddito: affitti brevi, brevissimi, a studenti, a turisti. Fare soldi senza fare niente, vivere di rendita di posizione. Chi ha i soldi ne farà sempre più, chi non li ha non ha chance. L’ascensore sociale, a Milano, è ormai irrimediabilmente rotto.

Il dato di cronaca mi appassiona fino ad un certo punto. Ci penserà la magistratura a spiegarmi quanto di lecito e di illecito è stato fatto in questi anni. È il milieu quello che mi interessa. Non discuto della qualità di molta architettura che è stata prodotta in questo quarto di secolo. Un rinnovamento urbano davvero unico, a tratti impressionante (il più grande cantiere d’Europa).

Una sfida di queste dimensioni aveva bisogno di imprenditori più evoluti rispetto al passato, dei “Ligresti 2.0” attenti alle parole d’ordine (“rigenerazione”, “sostenibilità”, “smart city”), e di progettisti di vaglia, di levatura internazionale. Il coolness chiede qualità. Ma le modalità restano sempre le stesse. “All’italiana”.

La politica decisionista piace all’imprenditore pronto a investire in una città che gli fa spendere cifre risibili in oneri d’urbanizzazione. Ma il decisionismo è sempre scivoloso, nella patria dell’amichettismo. I bandi, i concorsi, le gare, sembrano inutili impedimenti per chi vuole fare in fretta. Meglio accordarsi, più o meno sottobanco, fra commissioni, giurie, giunte, ordini. La “sinergia pubblico-privato” è solo una formula elegante.

Da che mondo è mondo, il mercato non è interessato al bene pubblico, non ha il dovere di essere etico. A questo dovrebbe servire la politica. A non piegarsi, a non inginocchiarsi alla logica del singolo. Le intercettazioni e gli sms che leggiamo in questi giorni raccontano di un senso di impunità sistemico. Se le regole del gioco sono truccate non c’è partita. Saranno pure bravi, smart, talentuosi, ma alla fine vince sempre la stessa compagnia di giro.

Il paesaggio, retrospettivamente, è quello che è: grandi opere, alcune spesso di valore, ma anche grandi occasioni sprecate di trasformazioni urbane capaci di adeguare la città ai cambiamenti globali. Nessuna attenzione al verde se non accessoria e ornamentale (greenwashing), totale abbandono delle classi subalterne al loro destino, arricchimento di una parte della città a discapito della collettività (ospedali, piscine, stadio, luoghi di socialità). Homo homini lupus.

Milano ancora una volta ha dimostrato che in Italia per attuare un programma di privatizzazione classicamente di centrodestra ci vuole una amministrazione di centrosinistra. È bastato sedare i mal di pancia dei consiglieri di sinistra con l’ennesimo gay pride, con i proclami d’inclusività o con lo spauracchio di “perdere Milano” a livello nazionale. Politica miope, destinata alla sconfitta alle prossime elezioni. Ma già intravedo il salto sul carro dei prossimi vincitori. Tutto cambia perché nulla cambia, “all’italiana”. Io mi sento uno sconfitto. Ma non mi arrendo. “Maledetti bastardi, sono ancora vivo!”

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*Gianni Biondillo  Autore di romanzi e saggi

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Gianni Biondillo

Autore di romanzi, articoli giornalistici, testi per il cinema e la televisione, Gianni Biondillo ha scritto saggi su Pasolini e Proust. Laureato in architettura, è stato direttore artistico del festival culturale ’Parole sotto la torre’ e dal 2013 è docente presso l’Università della Svizzera Italiana. Fa parte del comitato scientifico della ’Fondazione Giovanni Michelucci’ e nel 2023 ha vinto il Premio Bagutta con “Quello che noi non siamo”.