FEDERICA PACELLA
Economia

Iveco venduta agli indiani della Tata: così Brescia scende dal camion

La decisione di Stellantis a un mese dalla festa con le famiglie dei lavoratori. Il sindacalista Venturini (Uil): “Ci è sembrata un po’ una presa in giro”. Timore per i 6-8mila lavoratori dell’indotto

A sinistra, il polo della 0M, fucina di auto da corsa e di autocarri, antesignana della Iveco. A destra, la sede attuale

A sinistra, il polo della 0M, fucina di auto da corsa e di autocarri, antesignana della Iveco. A destra, la sede attuale

Brescia – Un mese fa, il Family Day, per festeggiare con lavoratori e famiglie i 50 anni di Iveco. Dieci giorni fa, la notizia ufficiale: la vendita di Iveco Group alla multinazionale indiana Tata Motors, operazione da completare nell’aprile 2026, dopo la cessione della divisione Defense a Leonardo. “Quel Family Day è stato un po’ visto come una presa in giro, visto come è andata”.

A raccontarlo è Dario Venturini, manutentore elettrico dello stabilimento bresciano dal 1995, delegato Uilm Uil Brescia. “Quando ho iniziato io a lavorare eravamo in 5mila. Oggi stiamo larghi, considerando che la dimensione dello stabilimento non è cambiata. Al tempo, entrava lamiera grezza ed uscivano camion, tranne che motore e pneumatici. Oggi si fa praticamente solo assemblaggio”.

Per l’Italia, Iveco è uno dei fiori all’occhiello della storia industriale. Per Brescia, è un po’ l’azienda di casa. Testimonianza di questo legame è il piazzale davanti allo stabilimento, intitolato a Bruno Beccaria, storico dirigente della Fiat, fautore della nascita dell’Iveco. “Alla fine la storia dell’Iveco è un po’ una storia bresciana”, sottolinea Venturini.

La storia

Per trovare l’origine, bisogna percorrere la linea del tempo fino al 1906, quando nelle campagne tra San Eustacchio e Fiumicello nasce la Brixia-Züst, fabbrica d’auto che, nel 1918, viene acquisita da OM: una fucina di macchine che vincevano la Mille Miglia e, dagli anni ’30, anche di autocarri. Nel 1938, con l’ingresso nel gruppo Fiat, l’OM diventa uno dei poli strategici della meccanica italiana, ma anche laboratorio di lotte e conquiste sindacali.

L’epoca Fiat

L’epoca Fiat inizia davvero, però, nel secondo dopoguerra, quando avvia una ristrutturazione della fabbrica, facendo di quello bresciano uno degli stabilimenti più moderni e completi in Europa per la produzione di autoveicoli industriali. Tra le produzioni, nel 1950 anche quella del ‘Leoncino’, totalmente bresciano. Verso la fine degli anni ’60, la possibilità di una chiusura dell’azienda è scongiurata dal direttore, l’ingegner Bruno Beccaria (ma Antonio Fappani, nella sua Enciclopedia Bresciana, parla anche dell’intervento dell’allora monsignor Montini), che esternalizza parte delle lavorazioni a cooperative di operai in Val Camonica, creando un indotto, che farà da volano all’industria bresciana.

Insieme all’amico padre Ottorino Marcolini, Beccaria promuove anche i ‘villaggi’, nuovi quartieri residenziali per gli operai dell’OM. La ‘fabbrica’ dà così forma anche alla città, con un modello poi esportato fino a Torino. Nel 1975 è Beccaria a guidare la nascita di Iveco, unificando OM, Fiat Veicoli Industriali, Magirus-Deutz, Unic e Lancia Veicoli Speciali: dell’OM resta il nome, affiancato a quello di Iveco, sullo stabilimento, fino al 1990. Oggi, con la cassa integrazione usata sempre più di frequente, gli anni della ‘cittadella dell’oro’ sembrano lontani. Per questo, chi lavora in Iveco, parla di timori rispetto alla vendita a Tata Motors, ma è anche consapevole che un cambio di passo serve.

Il timore

La preoccupazione è soprattutto per l’indotto: sarebbero 6-8mila i lavoratori attorno allo stabilimento bresciano, sia locali (soprattutto piccole lavorazioni) ma anche dal resto del territorio lombardo (le lamiere arrivano ad esempio da Mantova). “Molti fornitori italiani sono stati già sostituiti con fornitori francesi quando è arrivata Stellantis. Chiaro che il pensiero – sottolinea Venturini – è che Tata Motors possa fare altrettanto”. L’auspicio è che chi compra voglia investire. “Noi siamo passati da 30mila camion a 10mila all’anno. Il mercato è fermo – sottolinea Venturini – e in più abbiamo il peso dell’eco-ipocrisia: come si può pensare che un camion attraversi l’Europa a batteria? Così il pianeta non lo si salva, ma si uccide l’industria. Servono investimenti e una visione più ampia”.