FEDERICA PACELLA
Cronaca

Matrimoni combinati: "Comunità chiuse, miscela esplosiva"

Rupy Mavi, di origini indiane è un esempio di integrazione: "Il caso di Saman mi ha scioccata. I matrimoni combinati saranno il 70%"

Rupy Mavi, 27 anni, nata a Brescia da genitori indiani

Chiari (Brescia) - «Scusa se ti chiamo solo a quest’ora, siamo alle prese con la chiusura dei bilanci, un periodaccio". Sono le 19, la voce dall’altra parte del telefono è quella di Rupy Mavi, 27 anni, nata a Brescia da genitori indiani, arrivati dal Punjab negli anni ‘80, cresciuta a Chiari, in Franciacorta, prima italiana di origini indiane ad essersi iscritta all’albo dei commercialisti, premiata anche dal Comune di Brescia come esempio di integrazione. "Sono poche le ragazze come me che diventano professioniste – racconta – credo ce ne siano un paio iscritte all’albo degli avvocati. Nella comunità indiana c’è ancora questo fattore culturale per cui, giunti ad una certa età, una ragazza deve pensare al matrimonio". Anche combinato? "Il caso di Saman mi ha scioccata – racconta dopo una breve pausa – purtroppo di matrimoni combinati ce ne sono anche nella comunità indiana. Conosco ragazzi della mia età che si sposano con persone mai viste prima, solo perché consigliate dalle famiglie. Non esiste ancora un’associazione che possa dare dati reali in base alle aree territoriali, ma credo che in Lombardia siamo sul 70%, percentuale in calo perché oggi i ragazzi riescono a far piacere il partner ai genitori. Per non parlare dei matrimoni intercasta. Per me sono cose fuori dal mondo". Casi come quello di Saman (pakistana, ma Mavi sottolinea che il terreno culturale è analogo) creano smarrimento.

"Questi omicidi - racconta – secondo me maturano quando le comunità sono chiuse. Si formano dei “ghetti“, in cui poi si ha paura del giudizio degli altri, e questo genera una spirale molto pericolosa, in cui anche una madre può pensare che sia giusto punire il disonore". Mavi ha avuto dalla sua una famiglia che l’ha supportata, ma ricorda bene la difficoltà vissuta da adolescente. "C’è stato un momento in cui ho sofferto molto – ricorda - avevo 17 anni e nessun punto di riferimento. Per questo oggi, nel mio piccolo, cerco di aiutare le altre ragazze di seconda, terza generazione. Vedo ragazze che soffrono, che vorrebbero raggiungere un altro standard che sembra impossibile perché vivono in una sorta di terrorismo mentale". Qualche esempio? "Una ragazzina, non veniva più a scuola. Il padre sosteneva che fosse una sua libera scelta, ma si è scoperto che era proprio lui ad averglielo vietato". Non tutte hanno il coraggio di ribellarsi, a volte neanche la consapevolezza di poterlo fare. "Temo che dopo il lockdown sia sempre peggio. Ho visto tante ragazze che prima volevano andare all’università, mentre ora hanno deciso di restare a casa. E vedo ragazzi della mia età, che fanno ragionamenti che mi mettono la pelle d’oca". Che fare, quindi? "Deve cambiare il modo di concepire il ruolo della donna in queste comunità. Le istituzioni italiane stanno facendo molto. Si potrebbero introdurre degli strumenti che aiutino le donne indiane a fare percorsi per l’indipendenza. Sono convinto che questo avrebbe benefici anche per le figlie".