
Ljubisa Vrbanovic, conosciuto come Manolo, dopo l’arresto
Brescia, 6 ottobre 2016 - Ufficialmente il responsabile di uno dei crimini più efferati degli anni Novanta è morto. Ma le autorità giudiziarie italiane vogliono avere certezze granitiche, se necessario perfino la prova del Dna. Serve, dunque, altro tempo. E per questo si è conclusa con un nuovo rinvio, dopo quello dello scorso aprile, l’udienza del processo a carico di Ljubisa Vrbanovic, il bandito serbo conosciuto con il nome di Manolo, l’uomo che insieme a un cugino la notte del 15 agosto di 26 anni fa uccise a Torchiera di Pontevico (Brescia) quattro persone nel corso di una rapina in villa. Una famiglia sterminata. Nel massacro persero la vita il padrone di casa Giuliano Viscardi, che aveva 58 anni, sua moglie Agnese, 53 anni, e due dei loro figli: Luciano e Maria Francesca di 28 e 23 anni. Si salvò solo Guido, l’altro figlio della coppia che, da quando si era sposato, non abitava più con i genitori.
Per quella vicenda Manolo è stato condannato a 40 anni di carcere in Serbia. Secondo un certificato medico spedito dalle autorità di Belgrado e arrivato a Brescia nei mesi scorsi, Manolo sarebbe morto l’11 marzo del 2014 per un tumore ai polmoni in un ospedale carcerario serbo. «Non ci credo – ha sempre sostenuto Guido Viscardi, l’unico sopravvissuto – Devono darmi le prove, farmi vedere il cadavere».
La Corte d’assise di Brescia presieduta dal giudice Roberto Spanò ha aggiornato il processo al 17 maggio del prossimo anno. Entro quella data si attende una risposta ufficiale delle autorità serbe a cui, con rogatoria, sono stati chiesti i documenti che provino ufficialmente la morte di Manolo e la certezza della condanna. «Il processo resta aperto e nessuno vuole chiuderlo – ha precisato il presidente Roberto Spanò nel corso dell’udienza di ieri mattina – Il certificato di morte arrivato dalla Serbia ci dice come e dove è morto Manolo, e non possiamo ritenere che non sia un documento vero».
Mauro Leo Tenaglia, il sostituto procuratore di Brescia titolare del fascicolo, aspetta che dalla Serbia arrivino però le carte che dicano dove è stato sepolto Manolo, il «bandito dagli occhi gialli» come era stato ribattezzato Vrbanovic dai cronisti all’indomani della strage. «A quel punto potremo confrontare il Dna dei resti con quello del fratellastro di Manolo – sottolinea il pubblico ministero che nei giorni scorsi ha incontrato e ascoltato Guido Viscardi –. Sappiamo infatti che è detenuto in Italia nel carcere di Frosinone». La corte ha quindi concesso altro tempo al ministero della Giustizia italiana per chiedere e ottenere dalle autorità di Belgrado i documenti e tutte le risposte. Il processo è stato così rinviato alla prossima primavera. Altri sette mesi di snervante attesa per Guido Viscardi, che non ha mai creduto nella morte del bandito. «Le cose cattive non muoiono mai», ripete da quando - a febbraio - è arrivata dalla Serbia la carta che attesta il decesso di chi ha sterminato tutta la sua famiglia in una notte d’estate di 26 anni fa.