
Dante Ferretti tra Pier Paolo Pasolini e il direttore della fotografia Tonino Delli Colli
Milano, 23 giugno 2025 – Fra lui e sua moglie Francesca Lo Schiavo si ritrovano in casa qualcosa come 180 premi. Tre gli Oscar: per “Sweeney Todd” di Tim Burton, “The Aviator” e “Hugo Cabret” di Scorsese.
Cosa che spinge a ridimensionare quella medaglietta che teniamo in camera, vinta da piccoli alla gara di judo… Ma d’altronde con Dante Ferretti parliamo di una vera e propria leggenda del cinema. Che per una volta si mette in mostra grazie a “Garda. Un lago in festa”, nuovo festival voluto da Giordano Bruno Guerri. Appuntamento quindi al Vittoriale. Dove domenica inaugura “E la nave va”, esposizione con 40 opere dello scenografo (e costumista) marchigiano, fino al 27 settembre in Villa Mirabella.
Ferretti, che effetto le fa riguardare i suoi lavori?
“È un piacere speciale, anche perché non li ho condivisi spesso nella mia carriera. Mi hanno organizzato mostre a Los Angeles, negli Studios, al MoMA di New York. Ma pensi che è la prima volta in Italia. Ci sono bozzetti delle mie scenografie ma anche quadri e pitture. Credo si abbia un’idea abbastanza fedele del mio mestiere e di quello che ho fatto”.
Qual è il segreto?
“La fortuna. Solo grazie a quella ti ritrovi a lavorare con i più grandi e a firmare 95 film. E neanche me li ricordo tutti, per controllare devo guardare sul computer”.
Forse aveva un conto aperto con la fortuna, dopo quel bombardamento degli alleati.
“Ore e ore sotto le macerie. La flotta inglese aveva l’obiettivo di colpire una caserma vicino a casa nostra a Macerata ma sbagliarono qualcosa, visto che la caserma rimase intatta e venne giù il palazzo. Papà perse una gamba, io fui salvato da mamma che venne subito a cercarmi con sua sorella e riuscì a sentire il mio pianto. Mi fece scudo un armadio che mi cadde sopra. E dicono che quando vidi mamma gridai ’Ciak!’”.
Mi scusi ma qui si sfuma nella leggenda…
“Sì, ha ragione. Ma mi fa piacere ricordarlo, forse perché lo raccontava lei e credo che sotto sotto voglia significare tante cose”.
Quando si innamorò del cinema?
“La prima volta che mi portò mio padre, avrò avuto dieci anni. Rubavo le monete dalle tasche per andarci ogni pomeriggio. A Macerata c’erano cinque sale più le parrocchiali, uscivo da una ed entravo nell’altra. Dicevo sempre che studiavo con gli amici, poi venivo rimandato a settembre. Fu lo scultore Umberto Peschi a spiegarmi cosa fosse la scenografia e a dirmi che poteva essere la mia strada visto che già studiavo all’Istituto d’Arte. E allora per una volta mi misi d’impegno per raggiungere buoni risultati e convincere mio padre a lasciarmi frequentare l’Accademia di Scenografia a Roma”.
Andò bene?
“Mai visti voti così alti. Ricordo che mio padre disse: “Mo’ me tocca mandarlo davvero a Roma!’”.
Come si trovò nella Capitale?
“Facevo pratica da un architetto scenografo delle nostre parti. Era sempre via. Mi ritrovai a seguire due film contemporaneamente, due lavori di Domenico Paolella, piccole cose ma avevo 17 anni e in teoria sarei dovuto essere l’aiuto. Questa cosa fu notata. Mi volle allora Luigi Scaccianoce sui set di Pasolini e anche lui però se ne andava sempre a seguire altri progetti. Pier Paolo iniziò quindi a rivolgersi direttamente a me, tanto da chiamarmi poi per ’Il Vangelo secondo Matteo’”.
A Pasolini ha dedicato anche il libro “Bellezza imperfetta”.
“Gli sono molto riconoscente. Abbiamo fatto insieme otto film, fino all’ultimo. Un artista enorme, sempre avanti a tutti e non parlo solo come regista ma anche come scrittore, poeta, uomo. Mi ha insegnato tanto”.
Perché la chiamarono sul luogo del delitto a Ostia?
“Andai il giorno dopo e solo perché me lo chiese Nino Marazzita, avvocato della famiglia. Voleva che osservassi con attenzione ogni dettaglio per disegnargli poi una pianta con i segni fatti dalla polizia, le impronte, le tracce di pneumatici. L’idea fu poi quella che a ucciderlo non fosse stato Pelosi da solo ma che fosse successo qualcosa di più organizzato”.
Anche con Scorsese ha firmato tantissimi film.
“E ora faremo il decimo. O almeno così ci siamo detti, forse entro l’anno, anche se sono anziano, ho cinquant’anni più Iva, come mi piace dire. Con Scorsese siamo amici, mi ha sempre lasciato fare quello che volevo. L’ho perfino convinto a ricostruire tutto a Roma per girare “Gangs of New York”. Pensi che c’è una sola scena girata in America: De Niro e Cameron Diaz dietro un cespuglio che guardano l’orizzonte e in fondo compaiono le Torri Gemelle grazie a un effetto speciale. Era appena successo l’attentato, per questo aspettammo un anno prima di uscire”.
Fellini?
“Altro grande amico. Andavamo sempre a mangiare insieme. Entrambi raccontavamo un sacco di bugie e diventavamo rossi solo quando dicevamo la verità”.
Quanti premi avete in casa?
“Fra me e mia moglie 180. Il primo Oscar è stato quello più emozionante, anche perché è arrivato dopo tantissime nomination. Ma a un certo punto le cose vengono un po’ da sé. Quando inizi a essere apprezzato è molto più facile di quello che può sembrare lavorare con gli Studios. Io ho solo bisogno di immergermi nel periodo storico, nel soggetto, prima di cominciare. Di studiare, sfogliare documenti, raccogliere materiali. Solo poi comincio a disegnare, a confrontarmi su quello che sarà”.
Va bene, ci siamo Ferretti: film del cuore?
“Il prossimo”.
Risposta da vecchia scuola.
“Ma è così. Sempre. E non può essere altrimenti”.