Alzano, il primo caso Covid in corsia e nessuna protezione: “Ora siamo nella m..."

La tragica storia di Sergio e della madre ricoverata a febbraio 2020: "Tra i positivi e senza tamponi fino all’ultimo giorno. Così è morta"

L'ospedale di Alzano Lombardo

L'ospedale di Alzano Lombardo

Alzano (Bergamo) – “Non mi spiego come sia stato possibile mettere persone con patologie infettive dentro un reparto normale. Sono allibito dall’incompetenza dei medici che, nonostante si fosse in presenza di una polmonite in un ospedale contaminato, hanno negato sino all’ultimo che fosse qualcosa di legato al coronavirus. Il tampone, infatti, lo hanno fatto solo due giorni prima che morisse. Voglio giustizia. Chi ha sbagliato deve pagare... Mi sembra assurdo che io ho potuto circolare liberamente in ospedale dal 23 febbraio sino al 4 marzo 2020 nonostante l’emergenza".

Non è solo la conclusione di un verbale nella informativa della Guardia di Finanza. È un grido di dolore. Quello di Sergio B. per la madre portata via dal Covid al termine di un’odissea allucinante nell’ospedale di Alzano Lombardo. La donna ha 75 anni: in buone condizioni, autosufficiente. Il 19 febbraio 2020 non sta bene. Trasportata alle due di notte al pronto soccorso di Alzano, ci rimane fino alle dieci del mattino in attesa di una camera. Viene operata per un’ernia. L’intervento riesce. La donna viene ricoverata in Chirurgia. È la fatidica domenica 23 febbraio. Verso le 13.30 il figlio nota che una camera, sempre vuota e con le luci accese, è chiusa. Dopo una ventina di minuti, dalla porta della stanza della mamma, guarda in corridoio in direzione di quella camera e nota a terra un cartone giallo con la scritta "Infettivi". Qualche minuto dopo, nel corridoio si incontrano due infermiere, senza mascherina. "Siamo nella m.... È positivo", dice una.

Quindi in reparto c’è un caso di Covid. Nella famosa camera entra un medico "tutto bardato". Vengono distribuite mascherine a tutti, tranne ai degenti. B. chiede informazioni. Le ottiene dal medico "bardato": "Abbiamo quattro positivi in ospedale: uno in Chirurgia, due in Medicina e uno al pronto soccorso". "Io - fa mettere Sergio a verbale - non mi capacito come fosse possibile avere persone con patologie infettive in normali reparti". La madre viene trasferita in Ortopedia, con due persone. Il figlio parla con una signora che assiste un congiunto e apprende che nei giorni precedenti questi è stato curato con il casco a ossigeno per i malati di Covid. "Ora era in camera con mia mamma". Alla madre non viene fatto il tampone. Un medico comunica che è stato trovato un "addensamento" ai polmoni. Niente più. "Chiedo se è collegato al coronavirus. Mi rispondono di no". Altre lastre: l’addensamento è aumentato. Viene ripetuta la domanda: c’entra il Covid? La risposta è ancora negativa.

La donna peggiora. Il 2 marzo il tampone positivo. "Vado in ospedale e parlando con la dottoressa mi riferisce che mia mamma è in condizioni critiche e mi suggerisce di chiamare un sacerdote. Io ero allibito. Bastava un tampone e non saremmo arrivati a questo punto". La mamma peggiora, ma è cosciente. Il 4 marzo le mettono l’ossigeno. Le 13.30. L’uomo è a casa, per un panino. Due telefonate. La prima: "La trasferiamo in Medicina". La seconda: "Mamma sta morendo, corra in ospedale". Sergio suona al reparto. Gli infermieri gli danno un camice usa e getta e una mascherina chirurgica. Chiede di vedere la mamma. Una dottoressa gli comunica che la madre è deceduta.

La mamma morta è in camera con una persona che rantola. Arrivano gli addetti delle pompe funebri. Il corpo viene preso e messo in un sacco nero esattamente come si trovava, con gli aghi delle flebo ancora nelle braccia. Al sacco viene attaccato un pezzo di nastro adesivo con il nome. "Mi volto nel corridoio e noto altri sacchi con i corpi di persone decedute sulle barelle. Quel reparto era un inferno tra persone morte e persone vive".