Ex Sicc, quattro stelle di squallore: viaggio al grand hotel di profughi e disperati

Lodi, le «camere» dell’ex Sicc in via Ferrabini svelate dall’interno tra siringhe, spazzatura e letti sudici

Una delle "suite" dell'ex Sicc

Una delle "suite" dell'ex Sicc

Lodi, 30 aprile 2015 - Il cancello è spalancato nelle rovine del cementificio ex Sicc, con il vialetto d’ingresso ben battuto. Tutto attorno, in via Ferrabini, palazzoni eleganti con finiture di pregio e un super attico che, dall’alto, domina il paesaggio. Tra i resti dell’azienda, invece, c’è solo disperazione. Bene in vista, sotto gli occhi di tutti. Superato il cancello si passa dal prato al fango, dal fango alla spazzatura. Televisori, un fornelletto a gas, sacchetti ripieni di ogni cosa, copertoni e materassi buoni solo per i topi. Bisogna avventurarsi solo qualche metro più avanti, nella vegetazione coperta da escrementi, per vederlo. È l’ingresso del grand hotel dello squallore. La ‘veranda’ promette bene. Quasi un salotto en plen air: una sdraio, un poltrona. C’è perfino un separé, a fare da raffinato intermezzo tra un’elegante, ma ormai logora, poltroncina in pelle e il «bagno», in mezzo all’erba. Appoggiato al muro, un focolaio con alcune pietre che sorreggono traballanti una griglia da barbecue. A sinistra, sempre ben ordinato, un intero set di pentole e padelle. A destra la credenza: bicchieri, dal più alto al più basso e girati “a testa in giù”, come per evitare che all’interno si depositi della polvere. Un paradosso in uno scenario così desolante, ma non sarà l’unico. Subito sotto ci sono le spezie: pepe, curry, qualcosa di simile allo zafferano.

Pochi passi ancora e una porta aperta invita a entrare. Dentro, il primo di diversi letti, sparsi per tutto il casolare. Cinque in tutto. Camera singola, molto ampia. A terra tra resti di feci e fango c’è un piatto con del sugo ancora fresco e un tozzo di pane. Qualcuno sembra essere andato via in fretta. Un lungo corridoio porta ai bagni. Non funzionano, ovviamente, ma il fetore persistente lascia intendere che vengono ancora utilizzati, in qualche modo. All’altro capo del corridoio un’altra stanza, ancora una singola. È chiusa da una tenda lercia e fetida, piccoli avanzi di intimità in un posto dove pure la «cucina» confina con una latrina all’aperto. Sembra vuoto ora il grand hotel, ma quei resti «freschi» non lasciano dubbi: cibo, vestiti, scarpe, panni stesi perfino. Si torna fuori, a respirare. L’unico accesso ai piani superiori è chiuso con dei lucchetti e una catenella. Arrampicandosi su una transenna pericolante e schivando i vetri vivi di quella che un tempo doveva essere una finestra, però, si riesce a entrare. Un’altra tenda. Dentro, questa volta, c’è un’ombra. Qualcuno è rimasto a ‘casa’ oggi. Un ragazzo, probabilmente nordafricano, sembra poco più che ventenne, ci guarda dal basso all’alto, seduto su un letto con la testa tra le mani. Immobile. Non parla, sembra non capire nemmeno l’italiano mentre risponde alle domande facendosi sempre più piccolo, in un angolo, come a chiedere un po’ di pietà. Più spaventato forse lui di noi. Probabilmente uno dei tanti profughi sbarcati in città e poi sfuggito ai controlli, difficile a dirsi. Di sicuro talmente disperato da vivere tra mura sudicie, escrementi e calcinacci che crollano al primo colpo di vento. A due passi dalla Lodi borghese, e a pochi minuti a piedi dal Broletto.

gabriele.gabbini@ilgiorno.net