Busto Arsizio: mentì “per amore del compagno”, assolta dall’accusa di falsa testimonianza

La donna scagionata in Cassazione dopo le condanne in primo e secondo grado. Gli ermellini: “Quando depose nel processo a carico del convivente, temeva per la sua libertà”

Un'aula di tribunale (Archivio)

Un'aula di tribunale (Archivio)

Busto Arsizio, 26 febbraio 2024 – Mentì “per amore” del compagno, assolta in Corte di Cassazione dall’accusa di falsa testimonianza dopo essere stata condannata due volte, in primo e secondo grado.

La denuncia

La vicenda inizia quando una donna presenta denuncia riguardo presunte violenze fisiche subite dalla figlia da parte del compagno. Ne nascono un'indagine e un processo, nel corso della quale la ragazza viene ascoltata come parte offesa. In questo contesto avrebbe mentito per la paura che l’uomo potesse essere condannato per il reato di maltrattamenti in famiglia. 

Le condanne

Una volta accertate le menzogne, la testimone viene incriminata con l’accusa di falsa testimonianza.

In sede processuale sia il gup del tribunale di Busto Arsizio sia la Corte d'Appello di Milano la condannano sostenendo che l'imputata non ha dimostrato di essere in una delle due situazioni circoscritte dall'articolo 384 del codice penale per cui non sono punibili le false dichiarazioni: "essere stato costretto dalla necessità di salvare se stessi o un prossimo congiunto o da un grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell'onore".

Secondo le due sentenze di merito, infatti, la giovane donna non aveva dimostrato di trovarsi in queste condizioni.

La revisione

La Cassazione, chiamata dalla difesa della donna a valutare il caso con un nuovo ricorso, ha preso un'altra strada accogliendo la tesi degli avvocati e annullando senza rinvio la sentenza impugnata.

Gli “ermellini” spiegano che siamo nel caso previsto dalla legge per cui è possibile mentire senza essere accusati di falsa testimonianza. 

Le ragioni

I motivi? La donna conviveva con l'uomo autore delle violenze dal 2016, "la denuncia era stata presentata dalla madre e non da lei che anzi aveva reagito disapprovando la scelta della madre" e l'imputata "sentita come teste nel procedimento per maltrattamenti aveva dichiarato di essere ancora innamorata del compagno".

Questo insieme di elementi per la Cassazione avrebbe dovuto indurre in giudici "ad affermare che quando rese la testimonianza nel processo a carico del convivente temeva per la libertà del compagno che avrebbe subito un inevitabile pregiudizio, se ella avesse raccontato i maltrattamenti subiti".