
Lidia Macchi
Varese, 22 diocembre 2020 - «E adesso l’assassino di Lidia Macchi passi la vita a fare del bene». È la gelida mattinata del 10 gennaio 1987. Cinquemila persone gremiscono la basilica di San Vittore, a Varese, per i funerali della studentessa trucidata con ventinove coltellate cinque giorni prima. La voce che conclude l’omelia con il drammatico appello è quella di don Fabio Baroncini. È stato insegnante di Lidia al liceo. A lui, nel gennaio dell’86, la ragazza scrisse una lettera lunga, toccante, a tratti straziante, per confessare un amore infelice per qualcuno. Una lettera mai ricevuta dal prete. Don Fabio Baroncini ha concluso, a 78 anni, la sua intensa esistenza a Lecco, dove risiedeva da tempo. È stato per una ventina d’anni riferimento, guida spirituale per generazioni di studenti, di giovani di Varese, un protagonista dell’esperienza di Comunione e Liberazione e di Gioventù Studentesca.
Valtellinese di Morbegno, viene ordinato nel 1966 e subito approda a Varese. L’incontro della vita è già avvenuto, alle superiori, «con quell’uomo - rievocava don Baroncini su ‘Tempi’ - che proponeva, a differenza degli altri preti che conoscevo, un cristianesimo come movimento, lì in una volta capii che la mia educazione all’Azione cattolica, di cui facevo parte, aveva dei limiti». Quell’uomo, quel prete, è don Luigi Giussani, fondatore di Comunione e Liberazione. Quando Baroncini approda a Varese, l’insegnamento giussaniano si è già radicato negli oratori, nelle scuole. Il giovane prete dà un apporto determinante alla sua diffusione tanto che la comunità di Varese diventa una delle più importanti d’Italia. Don Fabio è professore religione al liceo classico Cairoli, lo stesso frequentato da una ragazza che è capo scout e militante di Comunione e Liberazione, in corrispondenza epistolare con don Giussani.
Una piccola autorità nell’ambiente giovanile, un personaggio di notevole carisma personale, una promessa del mondo ciellino. È Lidia Macchi. Dopo l’omicidio, don Fabio è ascoltato nell’inchiesta condotta dal pm Agostino Abate. Molti anni dopo si ritrova ancora come testimone quando finisce in carcere Stefano Binda, compagno di Lidia al liceo e nell’appartenenza a CL. Condannato all’ergastolo in Assise a Varese, Binda sarà poi assolto in appello per non aver commesso il fatto. È il 15 febbraio del 2016. Don Baroncini viene sentito con la formula dell’incidente probatorio dal gip di Varese, Anna Giorgetti, e dal sostituto procuratore generale Carmen Manfredda. Lei ha affidato Stefano Binda a Lidia Macchi per risolvere i suoi problemi? «No, no. Non sapevo, ripeto, non sapevo che Binda avesse questi problemi. La mia posizione sulla questione della droga è sempre stata chiara. Ho sempre sconsigliato i ragazzi di aiutare i compagni che fossero nella droga». Un’altra risposta è ancora più forte: «Io, come dissi ai carabinieri, che furono gli unici a interrogarmi, ‘Se sapessi chi è stato farei fatica a portarvelo sano e salvo’, perché l’ambiente in cui viveva la Lidia era così teso, così arrabbiato, così ostinato che se avessero saputo chi era stato finiva male». E più avanti: «Se avessi avuto il sospetto su qualcuno, questo sarebbe arrivato alla giustizia».