GABRIELE MORONI
Cronaca

Lidia Macchi, il corpo ora parla: nessun segno di Binda e cambia l'ora del delitto

La perizia: Dna non compatibile con l'imputato

Lidia Macchi

Lidia Macchi

Varese, 29 dicembre 2017 - «Niente del materiale biologico analizzato durante la perizia è ascrivibile a Stefano Binda». È una delle conclusioni dei periti che hanno lavorato sul corpo di Lidia Macchi, esumato nel marzo dello scorso anno nel cimitero di Casbeno, a Varese. L’altra è quella che la studentessa di Comunione e Liberazione venne assassinata in un arco temporale compreso fra 30 minuti e tre ore successive al suo primo rapporto sessuale, la notte stessa della sua morte, fra il 5 e il 6 gennaio 1987, in località Sass Pinì nel territorio di Cittiglio. In astratto questo dettaglio porta a una nuova ipotesi mai emersa prima: l’uomo con il quale Lidia ebbe il rapporto non è necessariamente anche il suo assassino. Sono questi gli esiti più significativi delle due superperizie eseguite da Cristina Cattaneo, antropologa forense all’Istituto di medicina legale di Milano, Giampietro Lago, comandante del Ris di Parma, Alberto Marino, maggiore del Ris, ed Elena Pilli, del dipartimento di biologia evoluzionistica dell’università di Firenze, sui resti della ventenne studentessa varesina, trucidata con 29 coltellate. Stefano Binda, 50 anni, di Brebbia, ex compagno di liceo di Lidia e come lei militante di Cl, è in carcere dal 15 gennaio 2016 e sotto processo davanti alla Corte d’Assise presieduta da Orazio Muscato con l’accusa di essere il killer della giovane. 

Un lavoro lungo, monumentale, quello eseguito dai periti, sintetizzato in due perizie da circa 200 pagine ciascuna, sulle quali Cattaneo, Lago, Marino e Pilli, relazioneranno l’8 gennaio con la formula dell’incidente probatorio davanti al gip Anna Giorgetti. Le conclusioni sono tutte a favore dell’imputato. I periti hanno isolato sulla salma 6mila tra formazioni pilifere e capelli. Di questi sono sei quelli che, con certezza, non appartengono né a Lidia ne ai suoi familiari. Sei formazioni pilifere prive però di bulbo. Impossibile, dunque, un confronto con il Dna di Binda. Ma una comparazione sì. Si parla di Dna mitocondriale (l’elica analizzata non è completa) che, sulla base statistica, potrebbe risultare compatibile (almeno in parte) con almeno il 10% della popolazione. Milioni di persone, dunque. Ma anche la comparazione ha escluso la presenza di Binda: milioni di persone, ma non lui. Cattaneo, inoltre, rianalizzando alla luce delle nuove tecnologie, non disponibili trent’anni anni fa, i risultati dell’esame autoptico eseguito nel 1987 dal direttore dell’istituto di medicina legale di Varese, Mario Tavani, ha “spostato” in avanti l’ora del delitto. 

Tavani sostenne che la vittima fu uccisa tra i 10 e i 15 minuti dopo il rapporto sessuale e pertanto l’assassino non poteva che essere lo stesso uomo. Cattaneo parla di omicidio consumato tra i 30 minuti e le 3 ore successivi al delitto. In linea teorica, l’uomo che ebbe quel rapporto sessuale con Lidia potrebbe non essere il suo assassino. C’era il tempo perché qualcun altro incontrasse la ragazza e la assassinasse. È, ovviamente, un ragionamento in astratto, ma che apre un nuovo possibile scenario. Lo scorso ottobre era stato isolato un microgrammo di Dna maschile, con ogni probabilità di natura spermatica, che aveva riacceso le speranze, che però si sono subito infrante: la quantità di Dna isolata era insufficiente per un confronto. «Sono sereno, si conferma quanto ho sempre sostenuto: non ho ucciso io Lidia», è stato il commento di Binda ai difensori quando, nel carcere di Busto Arsizio, gli avvocati gli hanno riferito gli esiti delle perizie.