GABRIELE MORONI
Cronaca

Lidia Macchi, la difesa di Stefano Binda: "Ignorata ogni nostra argmentazione"

L'avvocato Patrizia Esposito che difende Stefano Binda con il collega Sergio Martelli. "Non sono d’accordo - dice - su nulla delle motivazioni della sentenza"

Stefano Binda a processo

Varese, 25 luglio 2018 - L'avvocato Patrizia Esposito difende Stefano Binda con il collega Sergio Martelli. "Non sono d’accordo - dice - su nulla delle motivazioni della sentenza che ha, tra l’altro, completamente bypassato le ipotesi difensive, non dando alcuna risposta alle nostre argomentazioni". La difesa si era attestata su alcuni capisaldi. Non ci sono prove che la sera del 5 gennaio 1987 Binda si trovi presso l’ospedale di Cittiglio quando Lidia, uscita dopo una visita all’amica Paola Bonari, incontra l’assassino. Non ci sono prove che menta sulla sua partecipazione alla vacanza di Pragelato, dall’1 al 6 gennaio. Tre testimoni lo danno presente. Manca un elemento che suffraghi una conoscenza diretta, per non dire un legame sentimentale, fra Lidia e Stefano. La prosa “In morte di un’ amica”, recapitata ai Macchi, è attribuita dalla consulenza grafo-tecnica affidata dalla procura generale alla mano di Binda. La grafologia, replica la difesa, non è una scienza esatta. "Almeno - dice Paolina Bettoni, madre di Lidia - siamo arrivati a un punto fermo. Leggerò la sentenza. Comunque, penso che per Lidia ci sia stata giustizia".

Daniele Pizzi è il legale di parte civile. Non solo avvocato ma anche amico: "Ritengo che la Corte d’Assise abbia fatto un lavoro certosino, emettendo una sentenza granitica, che ha evidenziato tutte le bugie e le menzogne dette da Binda nel corso delle indagini e del processo. Del resto, tutti gli appelli che gli avevo rivolto, supplicandolo di ascoltare la sua coscienza e dire la verità, erano sempre caduti inesorabilmente nel vuoto. I giudici hanno avallato la nostra ricostruzione, ovvero che Lidia, quella sera, sia stata attirata con l’inganno e abbia subito una vera e propria violenza sessuale sotto la minaccia del coltello, nel tentativo, purtroppo vano, di salvarsi vita». Il dato, prosegue Pizzi, "che più mi ha colpito è come la Corte, attraverso le parole dei vari testimoni sfilati in aula, abbia saputo apprezzare la purezza e la libertà che contrassegnavano la vita di Lidia. Inoltre, dopo anni di omissioni e interferenze, sono stati riconosciuti i vari depistaggi che hanno contrassegnato sin dall’inizio le indagini sulla morte di Lidia, da ultimo il goffo tentativo di allontanare da Binda la paternità della lettera anonima attraverso circostanze che l’avvocato Vittorini avrebbe appreso da un non meglio precisato cliente. Del resto, il fatto che il collega non abbia mai risposto alla mia richiesta di fornirmi il Dna del suo assistito, aveva già messo in luce come si trattasse di un tentativo di allontanare i sospetti da Binda".