Il prete difende Cl: il killer di Lidia Macchi? Avrei faticato a portarvelo sano

Varese, il delitto della studentessa e le parole di don Baroncini: "Clima teso"

Don Fabio Baroncini

Don Fabio Baroncini

Varese, 28 novembre 2017 - Se si fosse saputo chi l’aveva uccisa, sarebbe stato molto difficile sottrarlo all’ira degli amici di Lidia Macchi. E anche oggi è necessaria molta prudenza. Un’affermazione forte, rivelatrice del clima sotterraneo di dolore, rabbia, sospetto, che si viveva a Varese negli ambienti vicini alla studentessa di Comunione e Liberazione trucidata con 29 coltellate la sera del 5 gennaio 1987.

A pronunciarla è don Fabio Baroncini, responsabile del gruppo varesino di Cl per vent’anni, dal 1966 al 1986. È il 15 febbraio dello scorso anno. Don Baroncini viene ascoltato con la formula dell’incidente probatorio dal gip di Varese, Anna Giorgetti. «Io - dichiara - come dissi ai carabinieri che furono gli unici a interrogarmi, ‘Se sapessi chi è stato farei fatica a portarvelo sano e salvo’, perché l’ambiente in cui viveva la Lidia era così teso, così arrabbiato, così ostinato che se avessero saputo chi è stato finiva male». Poco prima il sostituto procuratore generale Carmen Manfredda ha chiesto di chiarire una sua frase a un giornalista («Gli inquirenti non hanno ancora scoperto tutto») all’indomani dell’arresto di Stefano Binda, il cinquantenne di Brebbia che oggi viene processato per l’omicidio. «Io volevo dire una sola cosa, a chi ritiene di aver risolto questo caso volevo dire che un prete per ventinove anni è stato accusato di essere lui il responsabile ...». Una posizione alla fine archiviata, gli è stato fatto osservare. «Fatto salvo archiviare - ha proseguito don Baroncini -, chiedere scusa a questo prete. Ora stabilito che tre indizi non fanno una prova, io un suggerimento elementare: pensateci su bene perché altrimenti rischiamo ...».

Il sostituto pg legge una lettera del gennao ‘86 di Lidia a don Fabio. Una lettera, lunga, toccante, straziante a tratti, che il prete non ha ricevuto e che è stata pubblicata dalla famiglia Macchi. «In questo presente io sono continuamente ricondotta da qualcosa che mi è capitato circa un anno fa, cioè di innamorarmi e il mese scorso io credevo di essermi finalmente liberata da quella pugnalata che mi è capitata a tradimento quando meno me lo aspettavo, credevo di esserne veramente libera perché il vederlo non provocava in me reazioni di nessun tipo e mi sembrava che tutto si fosse pacificamente dissolto, nel tempo poi si sa la lontananza fa la sua parte, insomma potevo starmene tranquilla». Però «questo amore ha in sé una grandezza che io non gli ho dato e che in realtà non comprendo neppure, ma vedi se fosse per me ne farei volentieri a meno e se fosse per lui credo che se io scomparissi dalla faccia della terra ne sarebbe sicuramente felice o forse non se ne accorgerebbe nemmeno». Un amore grande, infelice. Nella borsetta, accanto al corpo di Lidia, viene ritrovata un’altra lettera, indirizzata a un «amore mio» mai identificato. Alla domanda se fosse a conoscenza dei problemi affettivi della ragazza, don Baroncini nega. Stefano Binda. Il teste riferisce di faticare a identificarlo, di averlo riconosciuto dalla fotografia, di ricordarlo «come un ragazzo intelligente». Si susseguono le domande e le contestazioni per rimandare a quanto messo a verbale in istruttoria. Così, don Baroncini parla di Binda studente di liceo come uno di «quei ragazzi che quando sono in classe determinano il tipo di attenzione della classe stessa», di un «leader naturale» che «decideva il clima culturale della classe».