Processo Lidia Macchi, caustico ricorso della difesa di Binda

Controdeduzioni in 211 pagine di osservazioni. Si comincia con il Sert

L’imputato Stefano Binda

L’imputato Stefano Binda

Milano, 3 ottobre 2018 - Non c'è un solo indizio che porti a Stefano Binda come all’assassino, il massacratore di Lidia Macchi, la studentessa varesina assassinata con 29 coltellate, la sera del 5 gennaio 1987, sulla collina del Sass Pinì a Cittiglio. Sono 211 le pagine del ricorso in appello depositato dai difensori Patrizia Esposito e Sergio Martelli. Pagine dense di osservazioni, irte anche di spunti polemici, una rivisitazione globale della sentenza, con cui, lo scorso 24 aprile, la Corte d’Assise di Varese, presieduta dal giudice Orazio Muscatoha condannato all’ergastolo il cinquantunenne di Brebbia. Un’osservazione nuova e anche questa intinta nella polemica: contrariamente a quanto scrive la sentenza, la sera dell’omicidio Binda non poteva trovarsi nei pressi del Sert di Cittiglio e quindi dell’ospedale dove Lidia era in visita a un’amica. Per una ragione molto semplice: all’epoca il Sert non esisteva ancora. Secondo i giudici di primo grado «costituisce fatto notorio che le sedi del Sert siano luoghi di spaccio, dove i venditori di sostanze stupefacenti si recano abitualmente poiché sanno di trovarvi soggetti in astinenza». «Stefano Binda - si legge ancora nelle motivazioni della sentenza - voleva acquistare della sostanza stupefacente e si era recato davanti al Sert di Cittiglio, quello più vicino o tra i più vicini a Brebbia, per incontrare il suo pusher».

La difesa articola la sua obiezione. Il Sert, Servizio per le tossicodipendenze, viene istituito in Italia con la legge 162 del 26 giugno 1990, il decreto del presidente della Repubblica è dell’ottobre successivo. In Lombardia in un primo tempo nascono i Not, Nucleo operativo per le tossicodipendenze; quello di Cittiglio è dentro l’ospedale. La palazzina all’esterno, secondo i difensori di Binda, risale al ’97 o ‘98.

Non mancano altre osservazioni critiche. La prosa anonima “In morte di un’amica”, recapitata alla famiglia Macchi il 10 gennaio 1987, giorno dei funerali di Lidia è attribuita dalla consulenza grafologica della procura generale alla mano di Binda. La grafologia, ribatte la difesa, non è una scienza esatta e fra le due scritture esistono forti differenze. Binda sostiene di avere partecipato alla vacanza-studio di Gioventù Studentesca a Pragelato dall’1 al 6 gennaio 1987: tre testi confermano la sua presenza. I difensori hanno ripercorso l’imponente materiale cartaceo; agende, appunti, sequestrato nell’abitazione di Binda. L’agenda da cui sarebbe stato staccato il foglietto di “In morte di un’amica” al tempo era ampiamente commercializzato. Quello con annotato “Stefano è un barbaro assassino” esce da un’agenda del 1986 quando Lidia era ancora viva e la grafia non è quella dell’uomo condannato. Infine, i quattro capelli attorcigliati attorno ai peli pubici della vittima appartengono, presumibilmente, all’assassino. Non sono di Stefano Binda.