Paola Zukar, regina del rap Prima i sogni (realizzati) con Marra e Clementino ora la rivoluzione Madame

Il mio colpo di fulmine nel 1984 guardando il film "Breakin’". Poi il viaggio negli Stati Uniti per immergersi in quel mondo. gli inizi duri e l’appoggio di Universal per cominciare la scalata.

Paola Zukar, regina del rap  Prima i sogni (realizzati)  con Marra e Clementino  ora la rivoluzione Madame

Paola Zukar, regina del rap Prima i sogni (realizzati) con Marra e Clementino ora la rivoluzione Madame

di Andrea Spinelli

"Sono arrivata a Milano a fine 1996 quando, col direttore Claudio Brignole, prendemmo atto che a Genova una fanzine rap come la nostra Aelle non avrebbe potuto funzionare ancora per molto" racconta Paola Zukar, 55 anni, una figlia e una società di management, la Big Picture, legata a numeri uno come Fabri Fibra, Marracash, Clementino, Madame. "Ci trasferimmo in piazza De Angeli e da lì è nato tutto".

La folgorazione per la musica urban com’era arrivata?

"Nell’84 davanti allo schermo. Ero andata a vedermi ‘Breakin’’, film sulla break dance di Joel Silberg, e da quel momento ho cambiato modo di vestire, di atteggiarmi, e altre reazioni da adolescente. Poi nel 1987 sono volata in America e l’opportunità d’immergermi nel vero contesto sociale e culturale del rap ha fatto il resto".

Dalla fanzine alla discografia il passo è stato breve?

"Nel 2001 la chiusura della fanzine, dovuta al momento di riflessione che stava attraversando il rap italiano, mi spinse altrove. Anche se in discografia ci sono entrata un po’ dalla finestra. Trovai lavoro, infatti, in Mp3.com, che potremmo definire un proto-MySpace, uno dei primi tentativi messi in campo dalla discografia per provare ad inglobare il digitale".

Un ruolo che l’ha portata ad intercettare numerosi emergenti, tra cui Fabri Fibra.

"Ascoltando i brani di ‘Mr. Simpatia’ pensai subito di portare Fabri Fibra in Universal, ma lì per lì la risposta fu “no“, perché ormai da tempo il rap non funzionava più. In azienda, però, trovai due validi alleati in Claudio Klaus Bonoldi di Universal Music Publishing e in Pico Cibelli, A&R del Repertorio Italiano (attuale presidente Warner, ndr), che mi dissero: proviamoci. Anche se l’ok definitivo fu di Pascal Negre, presidente ad interim dell’azienda appena arrivato dalla Francia".

Intuizione azzeccata...

"Sì, perché l’album ‘Tradimento’ si rivelò il più grosso successo del settore dopo i fasti anni ’90 di Articolo 31 e Neffa".

Intanto lei aveva messo radici in città.

"Sì, ma con timidezza ligure. Ad attrarmi fu innanzitutto lo spirito di una metropoli che crede profondamente nella sua appartenenza europea. E fin dall’inizio il mio centro di gravità divenne la zona Sud-Ovest, ovvero quella di Zona Forze Armate, Inganni, Bisceglie. Con lo svincolo autostradale vicino che, se devo scendere a Genova, agevola le cose. Un po’ di nostalgia di casa, infatti, m’è rimasta".

La decisione di cambiare strada e diventare manager, quando è arrivata?

"Quando attorno al 2006 con Fibra ci rendemmo conto che con l’hip-hop avremmo potuto farcela; che il nostro sarebbe potuto diventare un lavoro vero. Questo grazie alla presenza sul mercato di altre realtà molto motivate, come i Club Dogo e la loro gang in cui figurava pure Marracash. Pensammo che, al di là della competizione, avremmo potuto unire le forze per provare a fare qualcosa di grande visto che, anche col supporto della multinazionale Universal, i pianeti si stavano allineando".

Cosa vi diceste con Fibra?

"Visto che la discografia non ci darà mai un ‘recording budget’ di centomila euro, iniziamo a fare le cose artigianalmente, in maniera underground, guardando al mondo da un’ottica indie seppur col supporto di una major. Fu l’intuizione vincente".

Quando ha capito che il gioco si stava facendo grosso?

"Quando nel 2008 raddoppiai la scommessa, estendendo l’attività di management a Marracash, e poco dopo l’esplosione in classifica dell’album di Fibra ‘Controcultura’ trainato dal singolo ‘Tranne te’. Il rap non era mainstream, ma una nicchia solida sì. Le radio non lo passavano, i social non erano ancora strutturati come oggi, ma l’interesse cresceva lo stesso".

Essere donna le ha creato degli ostacoli?

"In grandi realtà come quella di Milano le maglie si allargano e diventa facile scivolarci dentro. Anche se nel 2006, quando ho iniziato, di donne dirigenti ce n’erano decisamente meno di oggi. Nel rapporto con i miei artisti, però, è la motivazione a prevale sul resto e il fatto che sono una donna rimane del tutto incidentale. Anche perché gli alleati con cui nel tempo mi sono trovata a fare squadra sono stati quasi sempre uomini".

A proposito di donne, com’è entrata nella sua orbita la ragazzina di provincia che cantava “Sciccherie”?

"Madame l’ho conosciuta proprio imbattendomi nel video di quel pezzo. Debbo dire che ci avevano messo gli occhi sopra pure due youtuber molto forti e nel frattempo era stata messa sotto contratto da Sugar. Fu proprio Fabio Rinaldi, A&R di Sugar, a contattarmi dicendo che Madame voleva me. Ne fui felicissima, perché da tempo ero alla ricerca di una donna giovane e forte da promuovere. Una che rompesse gli schemi sia per come si pone che per quel che canta. Sono molto grata a Francesca per essersi rivolta a me".

Potendo aggiungere un capitolo a “Rap. Una storia italiana”, il suo libro di due anni fa, su che cosa punterebbe?

"Mi piacerebbe tanto parlare dei rapper di seconda generazione, italiani con altre radici che raccontano il nostro Paese dalla loro prospettiva. E vorrei dedicare più attenzione all’audiovisivo. Sono una grande appassionata di documentari e su Raiplay, Sky, Netflix, Amazon ne vedo di bellissimi. Mi piacerebbe che pure il movimento hip-hop italiano venisse raccontato in quel modo lì".

Esempi di docufilm che l’hanno colpita?

"Me ne vengono paio che nulla hanno a che fare con l’hip-hop. Il primo è ‘Una squadra’, sull’avventura del tennis azzurro di Panatta e Barazzutti. Non sono un’appassionata dei campi di terra rossa, ma ho trovato interessantissimo il tipo di racconto e il modo in cui quella docuserie riesce a tirarti dentro ad un mondo e ad una storia che conosci poco. L’altro è ‘La mala’, storia della Milano violenta anni ’70-’80 con narrazione altrettanto interessante ed efficace".