GABRIELE MORONI
Cronaca

Così il "dottor Cicogna" ha sconfitto il virus

Vigevano, il medico del 118 che ha fatto nascere 11 bambini e la lotta per sopravvivere. "Mi dispiace aver fatto soffrire tante persone"

Ahmad Saleh, il "dottor Cicogna"

Vigevano (Pavia), 17 novembre 2020 - Lo chiamano “dottor Cicogna” perché ha fatto nascere undici bambini sull’ambulanza del suo 118 o sulla porta di casa. Undici vite. Questa volta Ahmad Saleh è stato costretto a difendere la sua, attaccata dal Covid-19. Intubato, immerso nel sopore indotto dai farmaci, non poteva sapere che più di una volta era stato diagnosticato che non sarebbe arrivato a notte. Alla fine ha vinto. Quello di lottare è il suo destino, dalla nascita, ultimo di sette figli, nel 1952 a Shweikeh, in Cisgiordania. Nel 1967, dopo la guerra dei sei giorni, la famiglia fugge dalla Palestina e ripara in Kuwait. Gli studi prima all’università per stranieri di Perugia e poi a Pavia. Per mantenersi fa il lavapiatti, il cameriere, il pizzaiolo, lavora in una lavanderia, va nei campi a raccogliere pomodori e meloni, lavora come organizzatore di eventi. Laurea e specializzazione in malattie infettive. Sette anni di guardia medica e nel 1998 entra stabilmente in servizio al 118, a Pavia, e dal 2004 a Vigevano, dove si stabilisce.

Come nasce il “dottor Cicogna”? «Nel 2002 i primi parti. La prima in assoluto è stata una bambina, nata in casa a Casorate Primo. Nove femmine, credo quattro in ambulanza e cinque in casa. Il decimo è stato un maschio, in casa. Avrei voluto bilanciare mettendo al mondo nove maschi, invece è arrivata un’altra femmina. Era il 2018. In tutto undici bambini, di etnie diverse: italiani, egiziani, rumeni, una bambina ucraina. A chiamarmi ‘dottor Cicogna’ è stato un giornalista o un fotografo».

Come ha contratto il Covid? «L’ipotesi che faccio è quella che sia successo verso la fine di febbraio. Ero in una abitazione di Vigevano per la constatazione del decesso di un signore di 70 anni. Soffriva di molte patologie, a cui si era aggiunto il Covid. Avevo i dispositivi di protezione, mascherina e guanti. La moglie era disperata. Mi ha abbracciato ripetutamente. Sia lei sia il figlio sono poi risultati positivi».

Quando ha iniziato a stare male? «Dopo otto o nove giorni ha avuto un po’ di febbricola. L’11 marzo ho chiesto due settimane e mi sono messo in quarantena. Avevo 37-37,5 di febbre. Il 13 marzo mi ha telefonato un soccorritore-autista: ”Dottore, misuri la temperatura. Io aspetto”. Ho messo il termometro sotto l’ascella. Quando l’ho tolto, vedevo tutto offuscato».

Cosa ricorda da allora? «Poche ore dopo ero in ospedale a Vigevano. Avevo il casco Cpap, ma non riuscivo a respirare. Mi hanno intubato. Per l’eccesso di sedativi avevo come delle allucinazioni, ma erano allucinazioni belle, feste, cantate, i matrimoni dei miei nipoti in Giordania. Mi hanno praticato la tracheotomia per farmi respirare. Fuori c’era gente disperata per me. Non si sapeva se avrei passato la giornata. Mi dispiace di avere fatto soffrire tante persone. Così fino al 21 aprile quando sono uscito dalla terapia intensiva per essere trasferito in un reparto Covid. Ci sono rimasto per nove giorni prima di essere portato all’ospedale di Mortara per la fisioterapia».

Tornerà a fare il medico del 118? «Vedremo se il recupero sarà completo e se intanto non avrò raggiunto l’età pensionabile. Mi piacerebbe aiutare a venire al mondo un bambino, maschio questa volta. Adoro le femmine. È un discorso solo di riequilibrio numerico».