Coronavirus e il teologo Vito Mancuso: così fragili, non siamo superiori alla natura

Nel coronavirus ha perso anche lui un parente, che viveva ancora nella sua Brianza, ma invita a non disperare

vITO mANCUSO

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Monza, 15 aprile 2020 -  È considerato uno nei teologi e dei filosofi più originali, profondi e fuori dagli schemi. Nato e cresciuto in Brianza, già docente universitario e autore di decine di libri, Vito Mancuso può aiutare a interpretare una delle più grandi crisi dal Dopoguerra.

Dal punto di vista di un filosofo e un teologo, quanto sta accadendo può insegnare qualcosa all’uomo? «Ferma restando la pietà per le sofferenze e le tante tragedie che si sta trascinando dietro questa pandemia – io stesso ho perso di recente una cugina in Brianza – non so se tutto questo può essere un momento di grande insegnamento oppure no, dipende da come le persone decidono di reagire. Perché se per molti quanto sta accadendo è un spunto di riflessione, altri sono più recalcitranti e a loro non insegnerà nulla».

Cosa dovrebbe insegnare? La finitezza dell’uomo, la sua fragilità? La morte? «Senza dubbio ci ritroviamo in una situazione che mostra i limiti dell’umanità. Sino a poco tempo fa, c’era il rischio di sentirsi al di sopra della natura. Attenzione però, non sto parlando contro la Scienza, anzi ben venga, è soltanto grazie a lei che per fortuna oggi sappiamo chi è il nemico e un giorno riusciremo a trovare il modo per sconfiggerlo. Mi riferisco piuttosto alla tecnocrazia che sembra dominare la nostra società e che dava ad alcuni l’idea illusoria che l’uomo fosse superiore alla natura. E invece non è così. Siamo fragili e questo ridimensionamento ci può fare solo bene».

Credenti o meno, cristiani o di altre fedi, perché in frangenti come questo gli uomini cercano molte volte un dio a cui rivolgersi? «È un aspetto strutturale all’umanità... quando l’umanità si trova alle prese con problemi più grandi di lei e sente che il Mondo la sta schiacciando, ci sono due reazioni possibili: la prima è quella nichilista, che porta a concludere che il mondo è insensato e la realtà è spietata. Il secondo invece risiede in questo desiderio di vita e di giustizia che sentiamo dentro di noi, è quella voglia di senso che ci spinge a credere che esista qualcosa oltre di noi. Da sempre i templi, gli dei, le liturgie, i libri sacri rispondono a questo bisogno. In fondo anche l’etimologia di preghiera, il tratto religioso per eccellenza, deriva dal latino “precari “ e rimanda a un senso di “precarietà”, alla sua debolezza insito nell’uomo… i salmi della Bibbia nascono proprio da situazioni di precarietà. Noi ora stiamo sperimentando proprio questo e si ritorna a pregare. Forse non sempre si sa bene chi pregare, ma è comunque di un fenomeno connaturato all’essere umano».

Qualche giorno il Papa ha benedetto una piazza deserta, una cerimonia a cui si sono ritrovati ad assistere migliaia di persone incollate alla televisione. Credenti o meno. Perché? «È stata senza dubbio una liturgia efficace perché è stata autentica. Se quella piazza fosse stata piena e attorno al pontefice ci fossero state le solite persone e la consueta dimostrazione formale di potenza della Chiesa, quel rito non sarebbe stato adatto per niente a un momento come questo. Un momento di impotenza anche per la religione. Questa teologia negativa è riuscita invece a esprimere meglio il vero messaggio del Cristianesimo, che è quello della Croce Non un Dio degli eserciti e della conquista, ma del dolore e dell’umiltà. Eppure…». 

Non tutti hanno apprezzato. «Ci sono due spiritualità diverse all’interno della Chiesa. Quella del trionfo ecclesiale ha criticato il Papa perché è venuto meno alla dimensione di potenza della Chiesa. Per altri invece, come me, quelle immagini sono state profonde e autentiche».

Chi ha storto il naso? «Chi ad esempio ha detto che questa pandemia è un castigo di Dio… e dire questo è disdicevole».

In questo momento anche celebrare un funerale, per motivi igienico-sanitari, è proibito. E questo ha accresciuto il senso di smarrimento dell’uomo. Perché? «Il culto dei morti è un elemento costitutivo dell’umanità. Pensiamo a quando abbiamo cominciato a prenderci dura delle nostre tombe o a curare i feriti senza abbandonarli a loro stessi: è da lì che siamo usciti dallo stato di natura ed è nata la civiltà. Un atto costitutivo della nostra civiltà che spiega il dolore di chi oggi non può celebrare i riti funebri, benché tutti comprendano come questa sia una logica misura di prevenzione dei contagi. È una delle prove che siamo al cospetto di una tragedia».

In che senso? «Quando c’è qualcosa di male ma non c’è un colpevole preciso, come viene raccontato ad esempio nel mito greco dalla storia di Edipo, siamo al cospetto di una tragedia. Anche se potremo trovare una maniera di elaborare il lutto, con un momento di raccoglimento o propro con una preghiera, anche da soli».

Nel Vangelo, Gesù sulla Croce invoca suo Padre con la frase “Elì, Elì, lemà sabactani?- Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. Molti si sentono così... «Se uno non è credente, ovviamente non può sentire l’abbandono, il non senso della vita. Se invece è credente e percepisce di essere abbandonato da Dio forse deve rivedere il proprio rapporto con la religione».

Si spieghi. «Il problema si pone per chi pensa che Dio sia benevolo, ed è impossibile allora conciliare questa idea con quanto sta accadendo. Le strade che si aprono sono tre: la prima è non credere in Dio; la seconda invece è quella di chi crede in un Dio di potenza, per cui tutto va accettato. Perché in fondo un Dio che è solo potere può mandare anche il male. E chi, nell’impossibilità di spiegare il male, si rifugia nell’impossibilità di capire i veri disegni di Dio ricorre a un sotterfugio. C’è però un terzo modo di credere e appartiene a chi confida in un Dio buono, dell’amore e della misericordia. Un Dio che non è supremo, ma è infinitamente buono. Il fatto che ci sia qualcosa che sfugge al suo controllo può spiegare l’esistenza del male. Perché Dio, al momento della creazione, ha operato una cessione di controllo sul mondo e sulla storia». 

Non è facile ammetterlo. «Anche ora che è stata celebrata la Pasqua, dobbiamo capire che non riguarda soltanto una piccola parte dell’anno, ma l’intero rapporto di Dio con l’Uomo, un Dio che come supremo atto di amore ha ceduto la propria onnipotenza per far sì che il mondo fosse davvero libero. Altrimenti ci sono fatalità che non riusciremmo a spiegarci, che senso avrebbe ad esempio che un ragazzo di 17 anni possa morire investito mentre va in bicicletta? E invece è tutto nel contratto della creazione».

Ma dunque Dio non può intervenire sulla vita degli uomini? «Tutt’altro, Dio non si ritrae, è dentro l’energia del mondo».