
I Celti in una rievocazione storica
Aveva fatto passi da gigante. Non era più soltanto un umile “barbaro”, uno straniero assimilato senz’arte né parte, forse un liberto di recente affrancato. Il signor Crippa aveva fatto fortuna. Col suo lavoro – artigiano, commerciante, imprenditore?– era riuscito ad accumulare una piccola fortuna. E allora occorreva farsi accettare anche nella classe sociale più elevata, quella dei dominatori, i ricchi, potenti e colti Romani. Sentirsi alla stessa altezza di quegli “strafottenti” era diventato un obiettivo a cui non avrebbe rinunciato per nulla al mondo.
Per se stesso. Ma anche per la sua famiglia. C’era soltanto bisogno di rendere più evidente la sua piccola scalata sociale. E se oggi per farsi belli ci si compra un macchinone, il cellulare di ultima generazione, il maxi televisore al plasma, duemila e rotti anni fa cosa si poteva fare? Beh, il modo migliore era quello di farsi fare un’epigrafe, che avrebbe consentito di affermarsi ma anche di lasciare qualcosa di indelebile alle generazioni a seguire. Nel mondo romano fra I secolo avanti Cristo e I secolo dopo Cristo non si conoscevano molti altri sistemi per autopromuoversi e autorappresentarsi. Un’epigrafe era l’equivalente di un titolo: come una targhetta con stampigliato “dottore”, “ragioniere”, “commercialista”, un messaggio affidato a quelle parole vergate su pietra era fondamentale e il signor Crippa lo studiò a puntino. E ci regalò la genealogia della più antica famiglia monzese di cui si abbia conoscenza.
“Seconda generazione” è il termine usato dagli studiosi per definire i figli di immigrati, o spesso, gli indigeni in cerca di affermazione presso la nuova classe dominante. Come il signor Crippa. Alle seconde generazioni come la sua spettava affrancarsi adottando costumi e mentalità dei dominatori. Una “integrazione a rovescio”, la definisce la studiosa Serena Zoia dell’Università di Bologna in un saggio pubblicato su Alteritas nel 2014. Bisogna scolpire il proprio nome: adattarlo alla cultura dominante, infilando quello romano dopo quelli originari ereditati dal proprio retaggio di sangue.
Un bel “pasticcio”, buono per tutte le esigenze: orgoglio e voglia di affrancarsi allo stesso tempo. Le origini del cognome Crippa non sono chiarissime, secondo parecchi studiosi tradirebbe però ascendenze celtiche o germaniche. E allora meglio “latinizzarlo” prima di farlo scolpire sul monumento a destinazione funeraria immaginato dal signor Crippa. Anzi, a questo punto, Crippasius . E nella lapide Crippasius inserisce i nomi di tutti i componenti propria famiglia, la genealogia quasi al completo. Può far sorridere oggi vedere inciso un tale numero di nomi, ma per Crippasius invece era di fondamentale importanza: dovevano starci tutti, ma proprio tutti, a costo di avere una stele un po’ pasticciata e di rischiare, oggi come allora, di essere additato come un “cafone”.
A raccontarci la storia della prima famiglia monzese è dunque una stele conservata oggi in un punto tanto visibile quanto facile a sfuggire all’attenzione, murata orizzontalmente all’esterno della cappella absidale del Duomo. Un lastrone di pietra quasi dimenticato, usato come riempitivo, che si dice in passato fosse servito persino a tappare una finestra della chiesa. Quel che è certo è che Crippasius (Caecili filius) – il protagonista – ci aveva speso parecchio, e ci fece incidere al fianco anche i nomi a cui teneva di più: la moglie Massima figlia di Sesto (Maxima Sexti filia ), e poi il figlio Cecilio ( Ceacilius ) e le figlie Cecilia Nigella, Secunda, Cenuria, Blanda e Maurena. Infine i nipoti Crescenzio e Secondo, addirittura tale Secondione, figlio di Messore, con cui non è chiaro il legame ma a cui evidentemente teneva abbastanza da menzionarlo assieme ai propri cari. Tutti insieme appassionatamente.
Un’altra stele simile si trova a Meda, sul confine nordorientale dell’ager Mediolanensis : questa volta a firmarla è tale Caius Atilius Mocetius, che l’aveva fatta realizzare per sé e per la propria famiglia. Pure lui era di origine indigena e dall’iscrizione si desume che era rientrato in patria dopo il servizio militare nella legione VIII Augusta, ed era diventato seviro, una magistratura di solito ricoperta da liberti arricchiti e per lo più impiegati nell’organizzazione di giochi e spettacoli, come i combattimenti dei gladiatori. Anche Caius Mocetius ormai ce l’aveva fatta, e poteva finalmente permettersi un monumento funebre che lo mettesse alla pari, o quasi, dei Romani per cui aveva a lungo servito e versato sangue. Ma questa... è un’altra storia.