Moussa ha 34 anni. I suoi due figli di 4 e 6 anni sono rimasti in Mali. Lui, invece, è arrivato in Italia un anno e mezzo fa. Approdato con uno dei barconi carichi di sofferenza e speranza. Ha affrontato una fuga verso l’Europa di quasi 3mila chilometri, fino a Lampedusa, passando per l’Algeria e la Tunisia. Terrore e disperazione lo hanno portato a fidarsi dei trafficanti di essere umani, convinto che l’unica speranza fosse il percorso via mare. Nonostante il tempo trascorso, quando Moussa pensa al suo lungo viaggio i suoi occhi si velano di lacrime. Il ricordo è distante, ma ancora doloroso. "Pensavo di morire": queste le uniche parole che riesce a condividere di quell’esperienza traumatica. Come tutti coloro che hanno affrontato un viaggio della speranza, non ama ricordare, né tantomeno raccontare. Quegli stessi occhi lucidi, però, s’illuminano quando pensa ai figli. Il suo sogno è trovare una sistemazione stabile in Italia per riuscire, un giorno, a richiedere il ricongiungimento familiare.
«Il senso di quello che facciamo è riflesso negli occhi pieni di speranza di Moussa – le parole di Matteo Lovatti, presidente della cooperativa Vesti Solidale –, nella sua voglia di lavorare sodo, nella sua determinazione e nella sua costante voglia di apprendere e studiare". Moussa ha iniziato il suo percorso con Vesti Solidale attraverso un tirocinio lavorativo. Ogni mattina sale sul camion e fa il giro dei cassonetti assegnati di giorno in giorno, per svuotarli e portarli al centro di smistamento. È contento di avere un lavoro e lo svolge con cura. E ora ha un contratto a tempo indeterminato. "La sua esperienza – commenta Lovatti – dimostra che dietro ogni indumento inserito nei nostri cassonetti c’è una storia, ogni singolo capo contribuisce a scrivere dei nuovi capitoli. Il riutilizzo di abiti usati non solo ci permette di preservare l’ambiente, ma anche di dare opportunità lavorative a persone in situazioni di svantaggio sociale".
Certo non è facile la vita per Moussa, che ancora parla un italiano essenziale. Per ora vive in un centro di accoglienza di Milano. Il grande scoglio che dovrà superare sarà l’acquisizione di un’abitazione autonoma. Dato il basso livello di istruzione, chi arriva dall’Africa svolge lavori non abbastanza remunerativi per poter sostenere il pagamento di un affitto e avere poi abbastanza per mantenersi. Si aggiunge la naturale diffidenza dei proprietari di casa nel dare in locazione un’abitazione a persone economicamente fragili.