Monza, quando Maradona giocò al Brianteo: “Vi racconto il Pibe de oro”

Dal ricordo del maresciallo che scortò la leggenda del calcio allo stadio all’allenatore in carcere fino alla sfida di Salvatore Illiano, l’ex postino che andrà al vecchio San Paolo in bicicletta

Moreno Ferrario, oggi 64 anni, in un’immagine storica allo stadio al fianco di Diego Armando Maradona

Moreno Ferrario, oggi 64 anni, in un’immagine storica allo stadio al fianco di Diego Armando Maradona

Dieci maggio 1987. Ultima partita in casa contro la Fiorentina. Basta poco per il primo Scudetto. "Per fare quei cinque chilometri da Soccavo, dove ci allenavamo, allo stadio San Paolo, ci mettemmo due ore. Non c’erano ancora i pullman scoperti, ma noi avanzavamo con le portiere aperte a passo d’uomo. Ecco, se non sei vissuto a Napoli, non puoi capirlo".

Moreno Ferrario da Lainate è un uomo schivo. Lombardo fino al midollo, a Napoli ha trascorso gli 11 anni più intensi della sua carriera.

Napoli dopo 33 anni è tornata a vincere il titolo.

"Una squadra che ogni volta che scendeva in campo era come se si prendesse una rivincita su qualcuno, sulle ingiustizie, sul Nord… allora fu una sorta di riscatto".

Al Napoli arrivò da Varese.

"Ero abituato a un pubblico che al massimo poteva arrivare a 25-30mila persone in una partita, a Napoli ce n’erano sempre 5-10mila persone solo per gli allenamenti".

E incontrò Maradona.

"Il più grande di sempre. Io andavo a letto alle 10 e lui all’alba, a volte dovevi scongiurarlo di venire all’allenamento, ma era un fenomeno. Con lui ho imparato cosa fosse un leader".

Un esempio?

"Il primo anno andavamo male, eravamo in ritiro prima di una gara con l’Udinese. Ferlaino, il presidente, ci venne a minacciare: se non avessimo vinto, avrebbe cacciato l’allenatore, Rino Marchesi. Maradona si alzò, prese la parola e gli disse: ‘va bene, ma prima caccerai me, e poi lui’, indicando col dito un compagno. ‘E poi lui’, indicandone un altro. E alla fine tutti, ‘perché in campo ci andiamo noi e se perdiamo la colpa è solo nostra’. Ferlaino ammutolì. E noi vincemmo quella partita 4 a 3".

Ebbe qualche problema.

"Era fuori categoria, giocava sempre da 10, non solo come numero di maglietta. Io tecnicamente non ero un granché, ma a quelli come me diceva: ‘se non ti impegni, non vinciamo. Perché io da solo non basto, se vinci tu… vinciamo tutti".

È passato alla storia anche per un gol di mano ai Mondiali.

"E non fu l’unico. Ne fece uno così anche con la Samp e un altro con l’Udinese, senza che nessuno, neppure noi compagni, se ne accorgesse: ce li fece vedere anni dopo in Vhs".

L’esperienza più bella a Napoli.

"No, a Monza".

Come?

"L’anno da allenatore… con l’Alba, la squadra di calcio a 7 del carcere di Monza. All’inizio non me la sentivo ma poi... fu l’esperienza più incredibile e bella della mia vita. Perché a Napoli in fondo era il mio lavoro, al carcere di Monza era la mia vita, era fare del bene".

Con rapinatori, ladri, banditi.

"Era il momento più atteso della settimana per tutti. Per i detenuti ma anche per il sottoscritto. I detenuti sapevano che dovevano rigare dritto altrimenti avrebbero corso il rischio di non essere convocati. Io scoprivo la lista dei disponibili solo all’ultimo momento. In campo però sapevo che per molti di loro, era uno sfogo, un paio d’ore in cui si sarebbero sentiti liberi, cercavo di farli giocare tutti, mi chiedevo ogni volta come fare per non deluderli"

Il rapporto coi detenuti?

"Non ho ricevuto mai tanto rispetto in tutta la mia vita. Non chiedevo mai cosa avessero fatto, erano quasi tutti stranieri, ma fu decisivo quando venni presentato il primo giorno. C’era un po’ di tensione, dissero che ero stato un calciatore, che avevo giocato in serie A, ma fu quando nominarono Maradona che tutti capirono: era tanta roba".

Il rapporto si era messo subito sui binari giusti.

"Non sono mai stato un fenomeno, ma ho dimostrato di saper stare al mondo, e che se ci si impegna si possono raggiungere grandi risultati. Non è necessario essere campioni, ero come loro".

Quando capiva, prima di una partita, le gambe rischiavano di tremare...

"Raccontavo di quando avevo dovuto marcare Hugo Sanchez davanti a 90mila spettatori allo stadio San Paolo, o Van Basten, Platini, Falcao, Rummenigge. Alla fine, dicevo che era tutto un gioco: a maggior ragione oggi, che in campo ci siamo solo noi, gli avversari… e le guardie".

L’Alba vinse il campionato.

"Un giorno sul campo mi arrabbiai di brutto con un giocatore, gli urlai contro per uno sbaglio di gioco… soltanto dopo, mi resi conto di cosa avevo fatto".

Il detenuto era un violento, storia criminale da brividi.

"A fine partita mi venne vicino e, davanti a tutti, mi disse: ‘Non ho mai permesso a nessuno di alzare la voce con me…’. E nel silenzio generale, aggiunse: ‘Ma Lei può’. Era andata bene".

Ha rischiato…

"Un giorno arrivò un bestione di colore, due mani grosse come badili: non voleva andare in porta… non capivo perché: poi venne fuori che non voleva più usare le mani perché con le sue un giorno aveva gettato la moglie fuori dalla finestra".

E lei?

"Gli dissi che poteva giocare dove voleva".