
A pochi anni dalla definitiva chiusura dello storico carcere di Monza un clamoroso piano per scappare andò in porto sotto gli occhi delle guardie. Una caccia all’uomo e alcuni colpi di mitra misero fine al loro tentativo.
Quando si parla di letteratura o di cinema, è risaputo come alla gente piacciano le storie di evasione. Non solo metaforiche. E nella storia carceraria di Monza ce ne sono state diverse. Proveremo dunque a raccontare la storia di un’evasione spettacolare, andata in scena a metà degli anni Settanta. In un carcere di Monza, quello di cui oggi restano i ruderi in via Mentana, che pativa ormai i segni del tempo e che si avviava progressivamente alla sua fine, avvenuta nel 1992. Siamo nel 1976 ma la libertà conquistata da due detenuti, con un piano meticoloso e ben orchestrato in una notte di fine autunno, sarebbe durata lo spazio di appena un’ora. I carabinieri riuscirono infatti a mettere le mani sui due evasi mentre questi ultimi cercavano di raggiungere un covo che pare gli fosse stato messo a disposizione da alcuni amici compiacenti nella zona di Brugherio. Dopo aver trascorso la domenica nelle celle di sicurezza della caserma di carabinieri di via Volturno, verranno giudicati per direttissima il mattino successivo: a distanza di tanto tempo sarebbe ingeneroso rammentare i loro nomi, ma possiamo solo dire che si trattava di due ragazzi di 24 anni. Al primo, residente a Seregno, restavano sei anni da scontare, dopo essere stato condannato per spaccio, rapina a mano amata e per la “violenta sommossa” che l’anno prima aveva sconvolto il carcere di Monza coinvolgendo decine di detenuti. L’altro evaso era invece originario di Cesano Maderno ed era stato arrestato da pochi giorni dopo una rapina all’ufficio postale di Camnago. In carcere, i due erano evidentemente diventati amici, o quantomeno sodali, condividendo la stessa cella.
La loro rocambolesca evasione sarebbe cominciata dopo che i due riuscirono, un po’ banalmente, ad aprire la porta della loro cella. Come? Con una chiave, ovviamente. Una chiave “falsa” che erano riusciti a farsi portare da qualcuno all’esterno, forse approfittando dei colloqui con parenti o conoscenti. Occorre precisare che tutti i pacchi di viveri e indumenti che arrivavano in carcere destinati ai reclusi venivano accuratamente ispezionati con uno speciale metal detector, ma per ragioni mai chiarite quel giorno non fu rilevato nulla di sospetto, tanto che si fece immediatamente strada l’ipotesi che la falsa chiave (e pure un seghetto) che ebbero un ruolo centrale nel piano di fuga fossero stati portati e consegnati a mano nel corso di uno dei colloqui con i visitatori, approfittando di una legge approvata proprio da poco che proibiva agli agenti di polizia penitenziaria di assistere agli incontri fra i detenuti e i loro famigliari. Proprio utilizzando questo “varco“ si erano registrate in pochi mesi altre due evasioni da parte di detenuti non certo di primo pelo, dato che si trattava degli autori del sequestro del giovane studente bergamasco Pierangelo Bolis, uno dei primi effettuati dalla ‘ndrangheta.
Ma veniamo al piano messo in atto al carcere di Monza nel 1976. I due giovani detenuti occupano la cella numero 9 al primo piano dell’edificio. A condividere la stessa cella c’è anche un terzo recluso, che però si guarda bene dal prendere parte alla fuga. Approfittando dell’assenza momentanea dell’agente di custodia incaricato di ispezionare il braccio a intervalli regolari, i due giovani introducono nella serratura la chiave falsa e armeggiano il tempo necessario a farla scattare. Usciti nel corridoio e dopo essersi accertati che nessuno avesse udito il pur lieve rumore, entrambi attaccano con un seghetto le sbarre di una finestra che si affaccia sul cortile centrale della prigione. Dopo aver tagliato alcune sbarre, quelle necessarie ad aprirsi un varco sufficientemente grande per farci passare i loro corpi, i due tirano fuori uno strumento che rappresenta un clichè per ogni evasione che si rispetti: una corda, ottenuta annodando le lenzuola. E, a quel punto, i due si calano nel cortile. Non resta che recuperare la corda, ma non è difficile. Più impegnativo quello che si apprestano a fare: dal cortile: i due reclusi si arrampicano sul muro interno e gli danno la scalata fino a raggiungere il tetto. In un punto che sia però fuori dalla vista della guardia armata che di notte perlustra il muro di cinta. A questo punto, i due prigionieri calano nuovamente la loro corda rudimentale e si lasciano scivolare sino al cortiletto antistante il carcere. L’ultimo tassello è forse il più semplice: scavalcare il muro di cinta dell’edificio e guadagnare la via Mentana. I due reclusi hanno pianificato tutto a puntino, hanno studiato i movimenti delle guardie e la planimetria del carcere. Ma non hanno fatto i conti con l’imprevisto, vale a dire con il fatto che ad appena mezz’ora dalla loro evasione una guardia decida di raggiungere il primo piano del carcere, quello da cui sono appena fuggiti, per una perlustrazione a sorpresa. E l’agente non può che accorgersi immediatamente delle sbarre segate. L’allarme viene lanciato immediatamente e si scatena una gigantesca caccia all’uomo, alla quale prendono parte decine di uomini fra carabinieri del Nucleo radiomobile di pronto intervento e di quello investigativo di Monza, agenti del Commissariato di polizia e guardie carcerarie.
E la caccia all’uomo darà i suoi frutti, dato che nel giro di un’ora a Brugherio, in via Baraggia, una pattuglia del Radiomobile nota due giovanotti che camminano a passo spedito. Troppo spedito. Di notte. Uno dei due militari tra l’altro riconosce il volto di uno degli evasi e il disperato tentativo dei due prigionieri di darsi alla fuga nei campi approfittando del buio non ha fortuna. A scopo intimidatorio, i carabinieri esplodono in aria alcuni colpi di pistola e raffiche di mitra. E un ultimo tentativo di ingaggiare una colluttazione con i carabinieri si risolve in un nulla di fatto. L’avventura è finita.