Della sua terra, la Pannonia, ricordava soprattutto gli acquitrini e le distese paludose. Di Costantinopoli i colori e i profumi ma anche gli anni di prigione dorata, quando ci era stato portato come ostaggio ad appena 7 anni di età.
Ora però che era disceso in Italia, era tutta un’altra cosa. Si viveva bene, si mangiava anche meglio. E ora che le lunghe battaglie con Odoacre ormai sembravano finite e aveva vinto lui, aveva tutto il tempo di godersela un po’ e fare quelle grandi cose che aveva sempre sognato. La pace, ognuno avrebbe potuto credere nel dio che preferiva, basta con le sciocche dispute religiose. Meglio costruire palazzi grandiosi con cui scolpire il proprio nome nella storia: Flavio Teodorico il Grande, sovrano degli Ostrogoti. Padrone del mondo. Peccato che a Milano ci fosse tutta quell’afa, meglio spostarsi appena poteva nella deliziosa Modicia e godersi un po’ il suo clima fresco e salubre.
Non lontano dal luogo in cui la regina Teodolinda avrebbe fatto erigere anni dopo una grande basilica, si era fatto costruire un palazzo. La Corte Longa. E non poteva immaginare che un giorno una minuscola strada avrebbe portato ancora quel nome: via Cortelonga. Le faccende del regno lo tenevano però sempre occupato, e al suo palazzo ci rimaneva per lo più suo nipote Dagoberto. Un altro suo cruccio, quel ragazzo, a volte non lo capiva, ma in fondo era sangue del suo sangue. A Dagoberto piaceva la campagna. Amava farci lunghe cavalcate in groppa al suo destriero preferito. Amava portarlo ad abbeverarsi alla roggia Pelucca. Era un animo semplice, e un po’ goffo e solitario. Un sognatore. Bellissimo ma senza amici. E così, quando sceso all’acqua col suo cavallo una bellissima rana verde smeraldo balzò fuori per posarsi sulla sua mano, lo interpretò come un segno. La tenne in mano per qualche secondo guardandola negli occhi e poi la adagiò con dolcezza di nuovo sulla sponda della roggia dove la rana scomparve non prima di avergli scoccato uno sguardo che a Dagoberto parve dolcissimo. Quella sera c’era luna piena e Dagoberto si preparò a trascorrere la serata alla finestra del suo palazzo ad ascoltare il gracidare delle rane chiedendosi se sarebbe riuscito a distinguere la voce di quella rana che aveva avuto l’ardire chissà perché di venirlo a salutare. E all’improvviso la vide, la rana color smeraldo si stava trasformando davanti ai suoi occhi in una bellissima ragazza con i capelli corti. Da paggetto. I piccoli seni nudi. Gli lanciò di nuovo uno sguardo sorridendo e si tuffo in acqua scomparendo presto alla sua vista. Da allora Dagoberto tornò ogni sera a quel laghetto, era innamorato ma non incontrò più quella ragazza. Poi, venne il gran caldo. L’estate più torrida che si ricordasse, anche Modicia non offriva più refrigerio. Lo stagno delle rane si prosciugò e rimase solo una minuscola pozza d’acqua che si andava seccando ogni giorno di più. Dagoberto lo guardava ed era preoccupato. Di questo passo, le rane sarebbero morte una dopo l’altra. All’improvviso, fra le povere bestiole che boccheggiavano gracidando sempre più adagio, ne vide una più bella e sofferente delle altre. Era verde smeraldo e sembrava proprio quella che un giorno, tanto tempo prima, gli era saltata in mano. Decise che avrebbe dovuto fare qualcosa, provare a salvare almeno lei. Staccò una grande foglia, la riempi d’acqua della sua bisaccia e ci avvolse dentro la rana. Prima di adagiarla di nuovo a terra sotto un cespuglio. Poi il cielo all’improvviso si coprì di nubi e scoppiò un temporale. Fortissimo. Piovve per giorni. La roggia Pelucca torno a riempirsi d’acqua, e ovviamente anche lo stagno. Parecchi alberi caddero sradicati dal vento. Anche del cespuglio sotto cui aveva messo la rana non rimase più nulla. Solo sterpi. Preoccupato, Dagoberto appena poté corse a controllare. E fu allora che vide di nuovo la rana verde smeraldo trasformarsi davanti ai suoi occhi in una bellissima ragazza. La stessa che aveva visto la prima volta. Ma stavolta, oltre a sorridere, gli rivolse anche la parola: "Mi chiamo Amira, e sono la principessa delle rane. Le porto i ringraziamenti miei e del mio popolo per avermi salvato la vita". Poi, con la stessa rapidità, si tuffò di nuovo in acqua tornando in forma di rana. Da allora, Dagoberto tornò spesso allo stagno a cercarla, ma invano. Ne tenne sempre nel cuore però la dolcissima immagine.
Sopravvive ancora oggi, sotto gli occhi di tutti. In forma di scultura. Era il 1932 quando lo scultore friulano Aurelio Mistruzzi realizzò in piazza Roma, ai piedi dell’Arengario, nel cuore del centro storico, un nudo di giovane donna colta nell’atto di ritrarsi dal getto d’acqua che sgorga dalla rana che tiene in mano.
Si narra che quando i Monzesi la videro per la prima volta, qualcuno si lamentò. Non perché non fosse di buona fattura, ma perché al centro della composizione c’era la statua di una ragazza nuda. Il basamento è posto al centro di una vasca marmorea, in ogni nicchia ci sono delle rane dalle cui bocca escono altrettanti getti d’acqua. Il fondo della vasca simula quello di uno stagno ed è rivestito da un mosaico che rappresenta altre rane e pesci. I Monzesi l’hanno soprannominata “la sirenetta”.