STEFANIA TOTARO
Cronaca

La condanna e la rabbia Trent’anni a Gambino "Ma i veri killer sono a piede libero"

Il verdetto in Corte d’Assise contro l’amico e vicino di Cristian Sebastiano. La madre della vittima e l’indifferenza delle persone del quartiere:. chi ha sentito mio figlio urlare mentre l’ammazzavano non ha fatto niente.

La condanna e la rabbia  Trent’anni a Gambino  "Ma i veri killer  sono a piede libero"

La condanna e la rabbia Trent’anni a Gambino "Ma i veri killer sono a piede libero"

di Stefania Totaro

"Questa sentenza mi lascia indifferente. Nei confronti del presunto mandante avevamo già ritirato la costituzione di parte civile. Voglio invece che sia fatta giustizia vera per i due assassini di mio figlio, che nel frattempo sono tornati in libertà e almeno uno mi è stato detto che gira ancora per il quartiere. Condanno anche le persone che hanno sentito Cristian urlare mentre lo ammazzavano e hanno fatto finta di niente, lasciandolo morire. E con lui hanno ucciso anche noi. Mio marito da allora si è gravemente ammalato". Non si è persa neanche un’udienza del processo la mamma di Cristian Sebastiano, il 42enne ucciso il 29 novembre 2020 con una trentina di coltellate sotto i portici dei palazzi popolari del quartiere San Rocco a Monza da due baby killer, R. di 14 anni e S. di 15 anni, che poi gli hanno rapinato 5 grammi di cocaina e, secondo la pm monzese Sara Mantovani, anche mille euro in contanti della pensione di invalidità, perché sapevano che li avrebbe avuti in tasca. Alla sbarra davanti alla Corte di Assise di Monza Giovanni Gambino, 44enne amico e vicino di casa della vittima, condannato ieri a 30 anni di reclusione per concorso in omicidio volontario e rapina aggravata.

Gambino, in carcere da 2 anni per questa accusa, è ritenuto il mandante dell’omicidio e colui che ha chiamato da una cabina telefonica Cristian per prendere l’appuntamento-trappola per la consegna della droga. Sostanza stupefacente che è il filo rosso che lega insieme i personaggi di questa tragica vicenda. I due baby killer sono stati condannati anche in Appello a 14 anni di reclusione in abbreviato, ma poi la Cassazione ha disposto che il processo per loro, nel frattempo liberi per scadenza dei termini di carcerazione, venga rifatto tenendo conto della perizia psichiatrica sugli effetti dell’abuso di droga dall’età preadolescenziale. Già dagli 11 anni ai giardinetti dei palazzi popolari a farsi le canne, invece di frequentare l’oratorio o rincorrere un pallone da calcio. Finendo per arrivare a consumare droghe pesanti nel giro di pochi anni e di trasformarsi a loro volta in spacciatori che cercano clienti tra i ragazzini, passandosi il testimone all’infinito in un circolo vizioso difficile da spezzare.

Vite rovinate dalla droga come quella dello stesso Cristian Sebastiano e anche di Giovanni Gambino, che invitava i ragazzini a casa sua per scroccare una canna, ma era dipendente dalla cocaina senza avere i soldi per potersela permettere. Un omicidio maturato sullo sfondo della droga "di cui tutti i protagonisti facevano uso e, il movente, litigi tra loro per la droga e i debiti accumulati con la vittima, che inoltre si era vantato di avere avuto più di 3.000 euro di arretrati della pensione di invalidità e di portarseli dietro per pagare alcuni conti in sospeso", ha ricordato la pm della Procura di Monza Sara Mantovani, che per Giovanni Gambino aveva chiesto l’ergastolo.

I giudici hanno fatto scendere la pena a 30 anni, ma il difensore di Gambino, l’avvocato Stefano Gerunda, è già pronto a ricorrere in appello contro la condanna. "In questo processo molte domande non hanno ricevuto risposta – sostiene il legale –. Perché R. non avrebbe dovuto volere uccidere Cristian per prendere il suo posto e non per soldi, che non sono stati mai trovati? Quale interesse avrebbe potuto avere l’imputato ad uccidere Cristian che lo riforniva di cocaina?". L’avvocato ha parlato di San Rocco come di "un quartiere difficile, zona di piccolo spaccio e di consumo di droga, abitata da alcune famiglie con ragazzi che hanno vissuto gravi problemi, con conseguenze a livello psichico. Situazioni da cui non sono riusciti ad uscire nonostante l’intervento dei servizi sociali e del Sert". Un quartiere dove "tutti credono di sapere tutto di tutti", sostiene Gerunda, "dove un fastidioso chiacchiericcio si è trasformato in una fonte di verità tra persone in cerca di droga e di svago, per spacconeria o situazioni borderline, che hanno solo creato confusione".