
In Africa "ci sono stato 43 volte, la prima quando la Parigi-Dakar ancora non c’era". Sahara, Tunisia, Niger, Mali, Burkina, fino al Golfo di Guinea. Ma "mica ci andavo per correre, la gara è un’altra cosa. Ci andavo da turista".
Per conoscere un continente dove "il respiro del panorama è immenso". Dove "ogni cosa ha un senso di grandezza e libertà". L’Africa e i suoi deserti. Quelli dai colori e dalle sfumature diverse. Raccolti a manciate e custoditi in barattoli di vetro. Allineati uno accanto all’altro come spezie che hanno dato sapori diversi a ogni viaggio, a ogni meta raggiunta, a ogni paesaggio ammirato. Ricordi che percorrono dune e sentieri sassosi in sella alle moto che hanno fatto la storia di una delle corse più sognate e difficili al mondo.
Angelo Caprotti, una vita in Yamaha prima della pensione, quelle rotte le ha percorse pure con una Renault R4 quando ancora non c’erano i Gps e si andava avanti consultando le cartine stradali e la bussola. Tempi eroici. Vissuti insieme all’amico Filippo Colombo, ancora oggi collaudatore per le Casa dei Tre diapason. E con lui ha deciso di creare un piccolo museo dedicato alla loro passione coltivata negli anni trascorsi nello stabilimento sulle colline di Gerno di Lesmo, fin da quando era Belgarda (allora importatrice delle moto di Iwata).
"Abbiamo cercato di tenere da parte, in base alle nostre possibilità, quello che ci sembrava un patrimonio storico che altrimenti sarebbe stato buttato", racconta Angelo. In una porzione di un capannone a due passi dalla stazione ferroviaria di Villasanta hanno radunato quello che entrambi avevano sparso in vari garage a Monza, una settantina di moto in tutto, ma "il vero valore è aver salvato tutta la memorabilia, centinaia di migliaia di foto, diapositive, immagini di moto mai uscite, tute. Un patrimonio della storia non solo di Yamaha ma anche dell’industria italiana e brianzola".
Angelo lo ripete con orgoglio. Perché "tutti parlano dell’Emilia come la terra dei motori, ma la Lombardia è quella dove sono nate la Gilera, la Moto Guzzi, la Fantic, la Sertum, la Vor, la Yamaha Belgarda. È tutto qui". E "pochi sanno che la prima "agenzia" che organizzava viaggi nel Sahara era nata a Monza, alla pizzeria Mickey Mouse, con Angelo Cucinotta. Si chiamava CAP 180, che sulla bussola significa direzione Sud".
E allora "a noi non andava giù che la testimonianza di migliaia di persone che hanno lavorato dietro a quello che si vede qui andasse perduto e dimenticato – rivendica Caprotti -. Così abbiamo fondato il Museo Dune, l’unico di questo genere in Italia". Un museo aperto a tutti, dove per entrare non serve pagare, basta solo prenotare. Due piani dove respiri l’odore del motore e dei copertoni tassellati, dove percorri "l’evoluzione delle prime moto degli anni Settanta fino ai (quasi) giorni nostri, fino alle ultime moto che hanno corso in Africa tra il 2006 e il 2007".
Un luogo soprattutto di passione e cultura così curato che l’Associazione internazionale di auto e moto storiche "ci ha riconosciuto come uno dei “suoi“ musei sparsi in tutto il mondo, al fianco di quelli della Ferrari e dell’Alfa Romeo, tanto per dire. E questo un po’ ci fa sorridere". Del resto al Dune arrivano da tutto il mondo, dall’Australia, dal Brasile, dalla Nuova Zelanda e dal Canada. Per non parlare dei piloti, dei meccanici, degli appassionati e di grandi collezionisti che hanno voluto regalare numeri e targhe di gara, caschi, tute, coppe, maglie. Anche moto. Quasi tutte funzionanti, "quasi perché l’impegno finanziario è molto alto e noi non abbiamo contributi da nessuno, ci reggiamo soltanto con le nostre forze".
L’unica "intoccabile" è la Moto Verte, quella che ha fatto la prima Dakar (1978-1979), regalata da un pilota francese con una sola raccomandazione: "La moto deve rimanere così com’è". "Non l’abbiamo neanche mai spolverata", assicura Caprotti. Poi "qui c’è la prima moto del primo pilota italiano che è riuscito ad arrivare alla Dakar, Andrea Balestrieri. E pensare che era buttata nel sottoscala di un concessionario di Parma".
Il Dune è un luogo fin quasi magico, dove trovi pure la Yamaha 400, il pezzo che ti dà il benvenuto al museo, che tra il 24 dicembre 1975 e l’11 gennaio ’76 ha solcato il deserto prima ancora della leggendaria Parigi-Dakar, quando si correva partendo da Abidjan per arrivare a Nizza. E ancora, il primissimo Ténéré che abbia mai corso in Africa, nel 1983. Frutto di quattro anni di restauri. Oltre alle prime moto due ruote motrici, quelle del Mondiale cross, i prototipi mai usciti, la due tempi 360 che nel 1974 ha fatto il periplo dell’Africa, le pettorine, vecchi telai, la tenda singola che si chiudeva a zaino e che i piloti chiamavano "il loculo". Fino alla "moto che mi è rimasta più nel cuore – confessa Angelo -: il Ténéré TT che ha corso la Dakar nel 1985 con Picco-Marinoni-Findanno. Dieci anni dopo, con quella stessa moto, ho fatto l’identico percorso arrivando a Dakar".
Per ora Angelo ha soltanto un modellino, "chissà se nel mondo ce n’è ancora qualcuna". Resta un sogno da realizzare. Insieme a quello di ricostruire la YZE 750 della Dakar ‘89: "Abbiamo il motore, ci manca tutto il resto".