Una grande tavola di legno massiccio ricoperta da un tessuto immacolato e finissimo. Vasellame cesellato e tirato a lucido. Stoffe morbidissime a rendere tutto più accogliente. Servitori pronti a mescere vino ai commensali. Come pietanze, ogni leccornia immaginabile, verdure, pane fragrante, zuppe. E, soprattutto, selvaggina arrostita e fumante, pernici, quaglie, vitello e maialini tenerissimi, conditi con salse e intingoli deliziosi.
Hanno pensato davvero a tutto per quella giornata speciale Teodolinda e suo marito Agilulfo.
Bellissima, elegante nel suo abito di lino chiaro, frange e una fibula preziosa, che le cronache dello storico Paolo Diacono e gli affreschi a lei dedicati possono solo fra immaginare, tessuti lunghi fino alle caviglie, in testa una ricca corona contornata di pietre preziose. Proprio come quella con cui è immortalata per sempre nella cappella della chiesa che si è fatta costruire, il Duomo di Monza, la sua città.
Modo: “qui” le aveva suggerito una colomba scesa da un albero nei pressi del fiume Lambro.
Etiam, “sì”, aveva risposto lei ubbidiente. Modoetiam, Monza, era nata così.
È una donna bellissima ed energica, Teodolinda.
Figlia del Duca dei Bavari era stata data in sposa ad Autari, re dei Longobardi, per suggellare l’alleanza fra le due stirpi. Morto Autari, forse per avvelenamento, dopo solo un anno di nozze Teodolinda aveva preso in mano le redini del suo Regno e, alla moda dei Longobardi, si era scelta il nuovo marito. Lei, cattolica, lui ariano. Teodolinda, dal germanico thind, popolo, e lind, che è il tiglio e in senso figurato lo scudo, vuole “proteggere” la sua gente. Vuole che Cristiani e Ariani siano in pace.
E quando ha saputo che nelle sue terre sarebbe arrivato un monaco predicatore dalla Britannia (è irlandese) con la fama di santo, ha capito che avrebbe dovuto fare di tutto per incontrarlo e averlo alla sua tavola. Diplomazia e santità. Lei e Agilulfo sanno che il dialogo è l’unica strada per portare avanti il progetto di un’unica terra, sotto un unico Dio. Primo stabile collegamento tra i Longobardi ariani e la Chiesa cattolica di Roma, sa che deve darci dentro con l’opera di conversione al cattolicesimo del proprio popolo. La pedina fondamentale sarà proprio l’incontro con il monaco irlandese. E allora quel giorno hanno fatto imbandire una tavola degna di sovrani, come sono loro, ma anche di un santo, come molti dicono che un giorno sarà proclamato quel monaco predicatore irlandese. Colombano, il suo nome. Teodolinda non ha però fatto i conti con un particolare non da poco per un cattolico autentico. Quei giorni in cui incontreranno San Colombano, all’incirca nell’anno 612 dopo Cristo, sono giorni di penitenza. Siamo in piena Quaresima. E in Quaresima quei monaci, perché San Colombano non si muoveva certo da solo, intendono osservare un regime alimentare particolarmente frugale. Non possono mangiare carne. E dunque pranzo sontuoso addio. Via la cacciagione, vade retro maialini e vitello. Niente pernici e pollame. La carne, pietanza trionfale alla corte di qualsiasi sovrano che si rispetti, simbolo di forza, ricchezza e potenza, deve essere bandita.
E così Teodolinda e consorte assistono con un misto di imbarazzo e irritazione a quei commensali che non toccano cibo o quasi.
Perché? Perché questo affronto?
Ma lo Spirito Santo, che ha sempre vegliato su Teodolinda e pure su Colombano, decide opportunamente di manifestarsi. E lo Spirito Santo, quando deve manifestarsi, a Teodolinda e Colombano soprattutto, si serve di una colomba. L’iconografia che li accompagnerà è lì a dimostrarlo. Anzi, in questo caso, di colombe ce ne vogliono tante, come quelle appena servite, arrostite, al desco regale allestito per gli ospiti venuti d’Irlanda.
La tensione si taglia con il coltello. Cosa accadrà?
Colombano esce dall’imbarazzo come solo un religioso lungimirante ispirato saprebbe fare. Dice poche parole rivolto alla Regina che gli chiede perché non stia mangiando nulla di tutto quel ben-di-dio: "Prima di servirmi, devo benedire queste pietanze".
E, non appena alza le braccia per benedire quelle pietanze, succede qualcosa di prodigioso: le colombe si trasformano sotto gli occhi dei commensali.
E da pietanze di carne, assumono la forma di fragranti e gustose pagnotte.
Leggenda vuole che sia nata così la colomba pasquale, che addolcita con zucchero, arricchita con abbondante burro e arancia candita, e con croccanti mandorle, avrebbe dato vita un giorno al dolce di Pasqua per antonomasia.
Una leggenda ambientata alla Corte dei Longobardi a Pavia, ma che ebbe come protagonisti due sovrani “monzesi”.