Il mago dei trapianti: "Abbiamo gli organi grazie a un bambino. Ma la sanità è malata"

Dopo tremila cuori impiantati, il luminare della cardiochirurgia si racconta "Il caso Nicholas Green ha spalancato le porte alle donazioni. I primi interventi? Era come andare sulla Luna. Ora tutto è cambiato".

Il mago dei trapianti: "Abbiamo gli organi grazie a un bambino. Ma la sanità è malata"

Dopo tremila cuori impiantati, il luminare della cardiochirurgia si racconta "Il caso Nicholas Green ha spalancato le porte alle donazioni. I primi interventi? Era come andare sulla Luna. Ora tutto è cambiato".

di Dario Crippa

MONZA

La sua casa è tappezzata di fotografie. C’è la bambina che aspettava un cuore in Sicilia. Il ragazzo di 20 anni che al ritorno da una vacanza ebbe uno scompenso cardiaco preoccupante ma non voleva accettare di avere necessità di un trapianto e "allora gli mostrai la stanza per quelli come lui: tutte persone che sarebbero morte". C’è quello che gli ha regalò un orologio Baume Mercier anche se il suo nuovo cuore gli arrivò solo il giorno in cui la sua ditta lo aveva appena licenziato per malattia. E che oggi ha trovato un nuovo lavoro e ha avuto figli. "Significa molto per me, ho promesso a sua figlia che un giorno lo erediterà… vuol dire che non sono una merda". Ettore Vitali non ha mai avuto peli sulla lingua e certo non ha intenzione di cominciare all’età di 72 anni. Le persone ritratte in alcune delle foto che campeggiano in casa sua e con cui ha mantenuto rapporti anche a distanza di tanto tempo sono tutte accomunate da una circostanza: sono vive perché il dottor Ettore Vitali gli ha trapiantato un cuore nuovo di zecca. È successo con almeno 300 di loro.

Perché la cardiochirurgia?

"Nasceva negli anni in cui mi affacciavo a questo universo, ho vissuto la sua stagione più bella, il primo trapianto di un cuore umano era avvenuto nel ’69, in Sudafrica, con Christiaan Barnard. Era come andare sulla Luna. La nostra era una specialità che non permetteva di raccontare balle, se commettevo un errore un paziente moriva".

Tante vite salvate, delirio di onnipotenza?

"No, il nostro è un lavoro, ci dicevamo “siamo i mitici semidei“, ma solo per scherzo. La bellezza della cardiochirurgia è che hai un riscontro immediato. Ricordo una ragazza, ci era arrivata praticamente morta... dopo un mese e mezzo l’ho reincontrata: bellissima, abbronzata e sana. È un lavoro di équipe, basta avere una squadra e un buon cuore".

Trovarlo non era semplice.

"Ricordo i casi in cui, anche per le lungaggini della burocrazia e la mancanza di donatori, ci arrivavano cuori già “scaduti”, già morti. Oggi per fortuna non è più così".

Perché?

"Il caso Nicholas Green, il bambino americano ucciso in Calabria (30 anni fa) da due rapinatori mentre era in vacanza in Italia. I suoi genitori decisero di donare i suoi organi e cambiò tutto".

Perché?

"In Italia, soprattutto al Sud, non c’era la cultura della donazione, anche se si andava a parlarne nelle scuole. Dopo quell’evento le donazioni fecero un salto in avanti".

L’Italia da terz’ultimo posto in Europa balzò al secondo per donazioni.

"E noi avevamo finalmente organi da trapiantare. E venne approvata una legge che consente di scegliere già al momento del rinnovo della carta di identità cosa fare in caso di incidente e dà la possibilità di donare senza perdere tempo prezioso".

Lei non è mai stato tenero con la sanità italiana, a rischio di farsi parecchi nemici?

"Non è cambiato nulla, vedo un mercato più che una sanità. C’è una tendenza al risparmio becero, il rischio è trovarsi a dover impiantare una protesi valvolare cardiaca comprata in Brasile: costa poco ma poi si rompe. Quando sento parlare di malasanità mi arrabbio: in realtà spesso si tratta di mala-amministrazione".

I direttori generali?

"Spesso viene premiato chi fa profitto e costruisce, non chi cura i malati".

La sanità è malata?

"Base della sanità dovrebbe essere la centralità della persona, mentre oggi gli ospedali sono sempre più fabbriche il cui capitale, formato da medici e infermieri, è considerato come le commesse di un supermercato, intercambiabile... Una sanità industriale, mentre io mi sono sempre sentito un artigiano. Prendersi cura di una persona vuol dire non limitarsi a curare la patologia, ma accompagnare il paziente, magari fino alla morte. L’apparato sanitario ormai finisce spesso a inseguire altri obiettivi, come Pil e fatturato. Si pensa più a costruire ospedali che a far funzionare la sanità".

E i giovani?

"Non consiglio mai di fare il medico, a meno che non si sia disposti a fare i migranti e si abbia una fortissima motivazione. Mi sono ritrovato all’aeroporto in partenza per una vacanza e a dover tornare indietro per un’emergenza. Fare il medico non ha appeal, il suo ruolo sociale non è riconosciuto e si viene sottopagati. Anche la formazione universitaria è inadeguata, oggi i ragazzi davanti a un paziente che sta male, chiedono una visita specialistica e intanto magari quello crepa... Non si troveranno più chirurghi, si privilegiano altre specialità che consentono di avere una vita privata... e un chirurgo, quando ti servirà, non lo troverai più"

Oggi è in pensione, mai pensato di darsi al privato?

"Mai. Sono ancora il ragazzo di sinistra che faceva parte del Movimento studentesco".

E che perse una gamba in un incidente quando era ragazzo.

"Chi in ospedale mi segò la gamba mi affascinò, imparai che il paziente non è solo una tibia. Fino a qualche tempo fa ogni anno mi toccava sottopormi a una visita di controllo per provare la mia invalidità. Finché non sbottai e chiesi: qualcuno pensa forse che questa gamba un giorno potrà ricrescere? Da allora non mi hanno più chiamato".