
Carlo Sala (illustrazione di Guido Bandera)
Monza, 10 luglio 2017 - L'ULTIMO ERETICO
CAPITOLO 1: FRATE SUO MALGRADO
ANNO DOMINI 1775. Venticinque settembre. Più o meno le tre del pomeriggio. Un uomo di grande corporatura, la schiena solcata da tre bruciature da poco inferte da una tenaglia rovente e un braccio grondante sangue cui è stata appena tagliata la mano, sale al patibolo davanti a una piazza gremita di gente, raccolta in un silenzio quasi elettrico. La storia di quell’uomo è passata per le mura di un convento e i ceppi della galera. È stato frate, libraio “maledetto”, ladro e sacrilego. Ma soprattutto è stato l’ultimo eretico condannato a morte a Milano. Tutto ha inizio 37 anni prima, nella notte fra il 24 e il 25 agosto, nel borgo di Castelletto – o Casletto – nella pieve d’Incino, a una manciata di chilometri da Erba. Una casa padronale lombarda, poco distante dal lago di Pusiano, sembra svegliarsi quella notte mentre le sue pareti risuonano del vagito di un bimbo appena nato. Carlo Bartolomeo Francesco Ludovico Sala, questo il nome del piccolo, non è il primo figlio di Anna Maria Ajana, che nella sua pur breve vita ebbe 7 bambini, di cui uno nato morto. Funzionava così, del resto, a quei tempi: i figli erano ricchezza e chi ne aveva la possibilità cercava di metterne al mondo quanti più possibile. E la casa di Fermo Sala, il papà di Carlo, non fa certo eccezione. Lui di figli ne ha già avuti otto dalla prima moglie, dei quali cinque sopravvissuti. Pochi mesi dopo la morte della prima moglie, consumata dalle ripetute gravidanze, l’ancora giovane Fermo (non ha più di una cinquantina d’anni) prende con sé un’altra donna, la madre di Carlo. Può permetterselo, del resto. Nella piccola Casletto, all’incirca 200 abitanti, Fermo Sala è considerato uno dei personaggi più influenti e agiati del contado: può contare su 234 pertiche di un terreno - 15 ettari - fra i più fertili e produttivi della zona, su una casa padronale e su altri tre edifici adibiti ad alloggi per i suoi massari o affittuari.
La notte in cui nasce, Carlo Sala sembrerebbe dunque destinato, così come i suoi due fratelli maschi, a un’esistenza serena, fatta di buoni studi e magnifiche prospettive. A turbarla ci si mette però la cattiva sorte. In una data imprecisata, ma ricostruita verosimilmente fra il 1746 e il 1755, suo padre Fermo, infatti, muore. E nel 1761 anche la mamma passa a miglior vita. La sua famiglia rimane così senza guida e a occuparsene ci pensa il fratello del padre, lo zio Giuseppe. Si rivelerà un’autentica rovina per tutti. Nel giro di pochissimo tempo, infatti, lo zio riesce ad appropriarsi dell’intero patrimonio del fratello defunto, visto che tutti i beni passano sotto la sua tutela. «Personaggio dalla condotta non proprio onesta e trasparente», ricostruiscono le cronache, lo zio tutore spedisce in convento i nipoti del fratello: prima si è premurato di far loro rinunciare con atto notarile all’eredità. E così il povero Carlo a 17 anni viene separato dalla sua famiglia e rinchiuso come novizio in convento. Si ritrova nell’Ordine dei Minori Conventuali di San Francesco di Milano. Un ordine di venticinquemila religiosi che si dedicano principalmente agli studi, alla predicazione, all’assistenza ai malati, al lavoro manuale in soccorso ai bisognosi. Carlo, costretto di fatto a indossare l’abito francescano, assume dopo un breve noviziato il nome di fra’ Bonaventura. E nel novembre del 1756, ormai diciottenne, viene ordinato suddiacono e trasferito per fare vita monastica a Domodossola, risultando però membro effettivo del convento di San Mirò di Canzo, piccola comunità religiosa a pochi chilometri dal paese di origine della famiglia Sala. Non durerà a lungo. Non ha la vocazione, Carlo Sala. E non sembra intenzionato a chinare il capo ancora per molto tempo nella sua vita. Nel suo animo cova infatti il fuoco della rabbia. E della vendetta.
(1 - Continua)