PAOLO GALLIANI
Cronaca

Dai cappelletti al bollito A Natale vince la tradizione

La festa diventa l’occasione per il recupero delle tipicità locali dall’insalata russa al patè di vitello dal brodo di cappone al risotto con la luganega a chilometro zero

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di Paolo Galliani

Non si discute. Perché tra tante incognite, lui, il Natale esiste da sempre. Se è diverso da quello precedente, è solo perché, ogni anno che passa, ricorda quanto ci stiamo allontanando dall’infanzia. E comunque, puntualmente riesce a saldare il bisogno di appartenenza ad un gruppo famigliare attraverso il rito collettivo della tavola.

In Brianza, fa di più: diventa recupero delle tipicità locali, minacciate nel resto dell’anno dall’invadenza di abitudini alimentari del tutto estranee alla fetta di Lombardia compresa tra il Vimercatese, il Lambro e la Valle del Seveso. Lo sosteneva anche Gianni Fossati, monzese d’adozione e di passione, esponente di spicco dell’Accademia Italiana della Cucina che peraltro, a oltre due anni dalla sua scomparsa, lo ha recentemente ricordato, in un hotel di Milano, con un premio giornalistico a lui intitolato. Amava ripeterlo, come una sorta di mantra: "La tradizione rivela chi siamo".

E lo faceva elencando le tante delizie, apparentemente povere ma non banali, che lui considerava irrinunciabili, specie durante le feste di fine anno. Era il suo guardaroba mentale: no ai cibi che non parlano di noi, sì alle ricette che fanno parte della nostra memoria, seppure rivisitate e migliorate con l’innovazione. Potesse guardarsi in giro, Gianni Fossati sarebbe contento. Perché la sua amata tradizione resiste, almeno nell’allestimento domestico del pranzo di Natale. Tra gli antipasti, reggono gli evergreen, con l’insalata russa diventata un cibo quasi identitario della Brianza, capace di transitare tra le generazioni, assieme al paté di vitello, alla filzetta e alla bogia, morbido insaccato stagionato per un anno e tagliato appunto il 25 dicembre. Mentre a detta dei puristi, resta una forzatura il consumo natalizio di gamberetti e dintorni.

Tra i primi, sempre in auge le lesagne e le crespelle, anche se ad aggiudicarsi il posto più ambito del podio sono decisamente i “cappelletti con ripieno di carne e in brodo di cappone”, talmente popolari da mettere in soggezione perfino il risotto alla monzese, ovvero con la luganega, tipo quella preparata da Gigi Viganò a Verano Brianza mischiando carne di maiale, grana padano, marsala, pancetta e cannella. I secondi? Incontrastato il dominio del cappone bollito con la mostarda di Cremona, tallonato in popolarità dal tacchino farcito con castagne e pasta di salame. Mentre in dirittura d’arrivo, sua maestà il panettone arriva dopo il doveroso assaggio di un altro mito del Natale brianzolo: lo zola con mascarpone. Sullo sfondo, il consiglio esplicito ad evitare gli eccessi. Nella convinzione che la liturgia iper-calorica abbia poco a che vedere con il piacere della condivisione; che nobilitare gli avanzi del 25 dicembre riproponendoli a Santo Stefano non sia un disonore ma un piccolo gesto di civiltà. E che il piacere della tavola - come sostiene Valeria Ratti, fiduciaria di Slow Food di Monza - possa risultare più apprezzabile se accompagnato al consumo etico: preferenza per le materie prime del territorio, scelta di ingredienti possibilmente biologici, attenzione allo spreco che è e resta immorale. Messaggio nemmeno tanto criptico: il pranzo di Natale non è un’abbuffata.