Post Covid, un educatore in trincea: "La pandemia ha avuto effetti catastrofici"

Roberto Sabatino ha un blog seguitissimo e ha scritto un libro per raccontare (anche) i disagi affrontati per recuperare un mondo giovanile devastato e terrorizzato dal lockdown

Roberto Sabatino, 40 anni, educatore, con i suoi colleghi di scuola

Roberto Sabatino, 40 anni, educatore, con i suoi colleghi di scuola

Monza -  Il Covid è stato un uragano. Devastante. E non stiamo parlando “solo” di contagi, malattia, morti, ma di un impatto sulla società e sui giovani devastante. Ne sa qualcosa Roberto Sabatino, 40 anni, educatore da una quindicina d’anni, molti dei quali spesi in scuole e centri di aggregazione giovanili della Brianza, un’esperienza forte, su cui ha deciso di scrivere un libro. Si intitola “Vita da educatori – A nostro agio nel disagio” (edizioni Sportmedia) e racconta tante storie, belle e brutte, di disagi e resilienza, nascosti dietro un mondo spesso sottovalutato come quello degli educatori. Sottopagati, a volte quasi scherniti o derisi, ma spinti da "una passione vera per i ragazzi che sembrano persi. “Di cosa di occupi tu? Ma di preciso che lavoro fai nella vita?” ci sentiamo chiedere… Ecco, noi siamo gli invisibili, ma non agli occhi di chi come molti ragazzi ripone la propria fiducia in noi".

La cronaca parla di disagio e delinquenza giovanile, atti vandalici, violenza, bullismo. "C’è un disagio vero. Il rientro a scuola dopo il Covid è stato difficile, molti ragazzi ancora avevano addosso il peso di questo lockdown e di questa malattia".

Perché? "Stare a distanza, sempre coperti con una mascherina, a contatto solo attraverso uno schermo, ha creato una spaccatura. Una fatica a vivere la quotidianità, crisi di panico, pensieri di morte".

Qualcuno si è isolato? "E aveva paura di rientrare, si rifiutava di lasciare il proprio nido".

E lì subentra, anche, il vostro lavoro. "L’educatore si spinge oltre, offre ascolto a ragazzi andati in paranoia, ho assistito a tante difficoltà e abbandoni scolastici in questo periodo".

Cosa si può fare? "I ragazzi non vogliono qualcuno che faccia loro la morale, vogliono solo qualcuno che li ascolti, vogliono il tuo silenzio e orecchie aperte per svuotarsi di ansie e paure".

La cronaca parla di violenza. "Per qualcuno è solo un modo per richiamare l’attenzione, quando vediamo ragazzi che vanno spaccare tutto, a pitturare i muri, a commettere atti di violenza… dietro c’è sempre dietro un ragazzo impaurito, che si porta dietro situazioni di difficoltà ingigantite dalla pandemia e dall’impatto sulle loro esistenze. Ci sono genitori che si sono separati durante il lockdown, figli che li sentivano litigare tutto il giorno. Oppure che hanno visto parenti, magari i nonni, morti durante la pandemia".

Questo scatena reazioni? "Un carico di rabbia verso il mondo. Dietro chi urla, c’è sempre chi sta male. La pandemia è stato un evento catastrofico: ai ragazzi ha tolto lo sport, ha messo le zone rosse, ha levato i luoghi di aggregazione, persino i lavori di gruppo: tanti ragazzi si sono sentiti legati come cani a una catena".

Nel suo libro ci sono tanche storie di resilienza. "Ricordo una ragazza di seconda media, avevo fatto un percorso sulle emozioni ma sembrava del tutto disinteressata. Un giorno invece mi ha avvicinato in palestra e mi ha chiesto di parlare: e piangendo a dirotto ha tirato fuori tutto, i problemi in famiglia, le ansie. Da allora è ritornata una ragazza solare, aperta, ci sentiamo ancora anche a distanza di tempo: una grande gratificazione".

Non è facile. "Spesso sembra che i ragazzi non ti ascoltino, ma in realtà hanno le antenne drizzate: come quella ragazza, che aveva un enorme macigno sulla schiena che aspettava soltanto di essere tolto".

Oggi molti studenti sono di origine straniera. "L’inserimento e integrazione sono necessari ma anche difficili, spesso c’è un problema di diversità culturale e linguistica, si sentono frustrati perché a volte non riescono a stare al passo degli altri. L’educatore è uno strumento in più per colmare la distanza".

Abbiamo una guerra dietro l’angolo. "Dopo l’invasione dell’Ucraina, sono arrivati tanti ragazzi che non sapevano una parola di italiano e avevano esperienze drammatiche alle spalle. L’incubo dei bombardamenti era nelle orecchie di molti, anche dei nostri stessi figli".

La scuola? "A volte deve avere pazienza, i ragazzi non sono solo contenitori vuoti da riempire di nozioni. Ci sono per fortuna insegnanti che di danno una mano preziosa, altri che sono più preoccupati dallo svolgimento del programma".

Lei si occupa anche di sport. "Serve tantissimo. Ricordo ragazzina che aveva tanta rabbia, l’ho convinta a iscriversi in palestra, ha scoperto la kickboxing ed è come rinata: ha imparato non dolo tecniche di autodifesa, ma soprattutto a sfogarsi e a rilassarsi. Lo sport è mancato molto durante il lockdown, molti ragazzi non potevano nemmeno usare il pallone per paura di contagiarsi. Oppure ho in mente un ragazzino autistico che ho convinto a praticare “baskin”, il basket per disabili, e adesso ha imparato a interagire molto di più con gli altri. Lo sport è una medicina fantastica".

Ha creato un blog. "Sui social ho una pagina – “Vita da Educatori” – dove racconto il mio lavoro e mi confronto con tanti colleghi, su Fb ha quasi 3.000 follower".

È dura? "Abbiamo contratti imbarazzanti, nei tre mesi estivi va bene se portiamo a casa una manciata di euro… Siamo pagati meno di una baby sitter, e non a caso c’è una morìa di educatori: ne ho conosciuti molti che sono stati costretti a cercarsi un altro lavoro. Moltissimi appena si è aperto il concorso per diventare insegnanti di sostegno hanno provato ad andarsene: uno stipendio fisso è un’aspirazione".