
Marianna Augusta Moneta Caglio, il Cigno Nero
Caponago, 25 luglio 2015 – Ha compiuto oggi 86 anni. E ha scritto un'autobiografia. Lo ha fatto già da qualche anno e l’ha chiusa in un cassetto ma ora, mentre si appresta a vendere la sua storica villa di Caponago, che risale addirittura al 1200 per trasformarla in una casa di riposo, ha deciso finalmente di pubblicare anche la storia della sua vita. Bisogna solo trovare un editore disposto a farlo. Lei, Marianna Augusta Moneta Caglio Monneret de Villard, non ha più paura. Il mondo – chi la ricorda,
almeno – la conosce anche con il soprannome “Cigno Nero” che le affibbiò la giornalista Camilla Cederna quando – giovane e bellissima, il collo alla Modigliani e la “erre” moscia – affrontava con sguardo fermo le giurie e i flash dei fotografi della stampa italiana e mondiale. Allora – erano gli anni Cinquanta – la signora Moneta Caglio ebbe il coraggio, forse l’ardire, di diventare la teste più chiacchierata per far luce su un delitto che all’epoca sconvolse l’Italia: una ragazza di 21 anni, la bella Wilma Montesi,
trovata morta su una spiaggia romana, a Torvajanica. Di quella morte furono accusate le feste, forse a luci rosse, forse un po’ drogate, che si tenevano a Capocotta, una tenuta frequentata da un mondo un po’ debosciato composto
da giovani rampolli della buona borghesia romana. Amministratore di Capocotta era il marchese Ugo Montagna, fascinoso fidanzato proprio della bella Moneta Caglio. E a quelle feste – come rivelò lei – partecipava fra gli altri il musicista Piero Piccioni, figlio
dell’allora ministro della Democrazia Cristiana Attilio Piccioni. Lo scandalo che ne scaturì stroncò la carriera politica del ministro Piccioni, che già sembrava prossimo a succedere ad Alcide De Gasperi alla guida del partito più forte d’Italia. Alla fine di quella roboante e triste vicenda – il primo scandalo politico-mediatico della Repubblica Italiana -, non pagò nessuno o quasi. Nessun cocktail di alcol e droghe aveva ucciso la povera Wilma, nessuno l’aveva abbandonata su una spiaggia per nascondere dove era avvenuto il fattaccio. Il Tribunale stabilì che la povera Wilma Montesi era morta per un malore seguito a un banale pediluvio (!) e il Cigno Nero si ritrovò con il cerino in mano, condannata per calunnia. Alla Moneta Caglio quell’epilogo non andò mai giù. Discendente di una casata illustre, origini nobili - l’albero genealogico della sua famiglia, che fu proprietaria della Zecca dello Stato, risale fino all’antica Roma, il suo bisnonno era il premio Nobel per la Pace Ernesto TeodoroMoneta - Marianna Augusta
Moneta Caglio Monneret de Villard non poteva accettare quella che considerava una patente ingiustizia.
Addirittura, quattro anni fa aveva provato a far riaprire il processo con un clamoroso ricorso, quando aveva trovato le prove che uno dei giudici che l’avevano condannata era sin troppo amico di uno degli imputati, cioè di Ugo Montagna. Tutto inutile, però, soprattutto dopo tanti, troppi anni. Il ricorso – la signora Moneta Caglio chiedeva tra l’altro un maxi risarcimento di 46 milioni di euro – venne respinto. E oggi, quando ormai la signora Moneta Caglio resta forse l’ultima testimone vivente di quella vicenda, il Cigno Nero decide di rompere il muro del silenzio. E di rispondere, dalla sua secolare tenuta sommersa dalla vegetazione nel cuore di Caponago, per presentare quell’autobiografia che dovrebbe scrivere la parola fine sulla storia di una delle donne più affascinanti e discusse dell’Italia degli anni Cinquanta.
Perché questo libro?
“Perché volevo si sapesse la verità sulla mia vita, la mia Famiglia, la mia storia”.
Tutti la ricordano per il Caso Montesi, scoccia passare alla storia come “il Cigno Nero”?
“Sì e no... io sono anche il Cigno Nero, ma sono molto di più”.
Cosa ha fatto nel resto della sua vita, come vorrebbe essere ricordata invece?
“Mi sono sposata, ho avuto una figlia, mi sono laureata, sono stata ricercatrice all’Istituto di Diritto Privato alla Sapienza di Roma con Francesco Santoro Passarelli (grande giurista italiano e accademico dei Lincei, ndr), ho sempre
lavorato per mantenere me e mia figlia. Vorrei essere ricordata per quello che sono, una ragazza di ottima famiglia che per amore si è trovata catapultata in un mondo che non era il suo, che ha sempre agito per amore della verità, e che
ha cercato di trasmettere questi valori a sua figlia: che la verità, l’onestà e l’amore sono la cosa fondamentale nella vita”.
Da ragazza aveva fatto anche un po’ di cinema (nel 1955 interpretò un film, “La ragazza di via Veneto”, con Ferruccio Amendola e la regia di Mario Girolami): cosa ricorda di quell’esperienza?
“Prima del cinema avevo fatto teatro: quello sì era un ambiente che mi piaceva, il cinema no, è tutto “falso”; a teatro ogni volta è una sfida con te stesso e il pubblico: se sbagli non puoi rimediare! Al cinema no, se sbagli la scena la togli
e la rifai finché non viene bene...”.
Il suo fidanzato era Ugo Montagna, ha mai temuto di finire come la povera Montesi?
“Dipende da cosa intende per finire come la Montesi!”.
Beh, raccontò di aver rischiato più volte la vita durante il processo...
“Se è per questo anche prima e dopo il processo! Comunque ai tempi del caso Montesi direi che avevo scoperto a mie spese che era del tutto sconsigliabile andare fuori a cena...”.
Come andò quella vicenda? Furono tutti assolti, come è morta Wilma Montesi?
“Io non so come morì effettivamente Wilma Montesi. Come dissi sempre, io non c’ero, riferivo solo quello che mi diceva Ugo”.
Di quell’epoca e di quelle feste che idea si è fatta?
“Non ho mai partecipato a quelle feste, quindi non posso e non voglio giudicare”.
È stata fatta giustizia?
“Certamente no, soprattutto nei confronti della Montesi”.
Alla fine lei è rimasta l’unica condannata (per calunnia) e neppure il suo ricorso ha avuto buon fine: perché?
“Non sono stata la sola condannata, lo furono anche Silvano Muto (il giornalista che per primo scrisse del caso, ndr) ed Adriana Bisaccia (l’attrice che puntò il dito sulle presunte orge di Capocotta, ndr), con una sentenza abnorme
ed assurda: per condannarci Roma andò contro quanto stabilito nella sentenza di Venezia (già passata in giudicato!) ed ignorò totalmente quanto accertato dalle indagini che portarono a quel processo, compreso soprattutto quello che aveva affermato sotto giuramento lo stesso Ugo, e cioè che non era stato lui a lasciarmi ma fui io a lasciare lui: quindi dove stava il dolo e la sete di vendetta? Il mio ricorso? Probabilmente era troppo “scomodo” ritirare fuori certi fatti, e così ufficialmente mancavano “le nuove prove”...”.
Perché ha provato a fare causa a distanza di tanto tempo?
“Perché avevo appena ritrovato dei vecchi documenti (tra cui la dedica fatta a Montagna da un giudice!) e perché volevo, voglio riavere la mia dignità: non ho mentito né tanto meno calunniato nessuno, ho solo detto ciò che sapevo: lo dovevo – lo devo – a me e a mia figlia”.
All’estero soprattutto, c’è chi ha tentato di fare paragoni fra il caso Montesi e le Olgettine di Berlusconi: c’è del vero?
“Non posso saperlo: non partecipai allora a quelle feste ed ancor meno a queste! Forse l’unico parallelismo è l’uso che è stato fatto di entrambi... e comunque non permetto a nessuno di fare simili paragoni!”.
Come visse quell’epoca e la notorietà conquistata suo malgrado? All’epoca c’era chi la esaltava e chi invece la criticava? Qual è la verità?
“Come una ragazza di poco più di vent’anni catapultata in un mondo non suo ma che, cresciuta in una Famiglia tra le più antiche d’Italia, allevata nel culto dei valori fondamentali di onestà, rettitudine ed amore della verità tenuti
come capisaldi dell’educazione e che li ha sempre applicati ad ogni costo, senza scendere a compromessi. A chi mi criticava allora e magari lo fa anche adesso, posso solo ribadire che ciò che ho fatto e detto l’ho fatto e detto solo perché questi sono i valori ed i principi secondo cui sono cresciuta: la verità ad ogni costo, essere sempre in pace con la propria coscienza. Sarebbe stato molto più facile “vendermi” e tacere, ma questo non fa parte del mio DNA; io posso guardarmi tranquillamente indietro ed allo specchio a testa alta ed in pace con me stessa e la mia coscienza. Quanti possono fare altrettanto?”.
Qual è la felicità per Lei?
“Mia figlia, i miei cani e ciò che, nonostante tutto e tutti, sono riuscita a costruire e a trasmettere alla mia bambina”.