MARCO GALVANI
Cronaca

Briosco, a Villa Medici Giulini il tempio del pianoforte

Fernanda è la padrona della casa di famiglia trasformata in un museo. In mostra un’ottantina di strumenti preziosi dal Settecento ad oggi

Fernanda Giulini tra i suoi pianoforti nella villa di Briosco

Briosco (Monza Brianza), 5 luglio 2020 Nel Medioevo era una fortezza costruita a guardia dei villaggi. Poi è diventata una villa fattoria, un piccolo latifondo. Ma quei cinquemila metri quadrati abbracciati a "questa Brianza che distava 4 ore di cavallo dalla città ed era la prima collina dove andare a cercare fresco", oggi è uno dei monumenti più antichi della Lombardia, rimasto così com’era nelle mappe di Maria Teresa del 1721.

Uno scrigno dove "queste grandi sale, piene di silenzi pur essendo in centro paese, sono un luogo amabile per suonare, per comporre, per studiare, per dialogare sulla musica". E dove l’architettura s’accorda all’acustica senza un disegno predefinito, ma per "pura magia". E’ questa "la mia prima percezione, quella straordinaria qualità che può esistere nelle ville venete ed esisteva nelle grandi sale da concerto di Vienna". Fernanda Giulini è la padrona di questa casa-museo appartenuta alla sua famiglia e che lei da quarant’anni ha acquisito. Lei, diplomata in pianoforte, imprenditrice e collezionista di strumenti musicali quasi per caso e sicuramente per passione. Nelle sale di Villa Medici Giulini viene raccolta e raccontata la storia del pianoforte, dagli antichi fortepiani del Settecento ai nostri giorni. Ricreando l’atmosfera delle sale storiche nelle quali sono nati i capolavori dei compositori viennesi e francesi, ognuno con il suo "strumento prediletto". Un’ottantina di strumenti con cui Fernanda Giulini ha arredato la villa. A cominciare da un moderno Yamaha, "solido così non lo devo accordare in questa casa di campagna". Vive qui sei mesi all’anno, dalla primavera all’autunno.

«Nel ridare un’identità a questa dimora ho prediletto gli strumenti musicali che sono entrati qui come d’incanto – racconta -. Non doveva esserci una quantità inenarrabile di strumenti musicali che avrebbero creato solo del disordine, della disarmonia, ma che ogni sala avesse la sua identità di arte e di musica". "Una sera, avendo ospite Claudio Scimone, ebbi da lui la conferma che il suono della sala era di straordinaria bellezza – continua -. Nella sala c’era già un cembalo spagnolo. Il suono era naturalmente amplificato e senza alcuna eco. Da lì sono iniziate le prime acquisizioni che, però, mi hanno provocato inquietudine perché eseguivo la musica che ho studiato su pianoforti moderni con strumenti molto simili a quelli su cui era stata composta. Ed è stata un’esperienza che ha messo in discussione tutto quello che mi avevano insegnato e ho capito che bisognava andare avanti".

La scelta, sempre dettata dall’estetica. Proprio come avveniva nel Settecento, quando la sala da musica era la televisione e gli strumenti facevano parte dell’arredo e venivano costruiti a seconda della ricchezza del committente per cui lavoravano i musicisti. Dagli Anton Walter su cui componeva a Mozart agli Schanz, dai Pleyel di Chopin agli Erard di Verdi, Listz e Wagner fino ai moderni Steinway. Piccoli e grandi "monumenti di musica e di bellezza".