Monza, una notte in ambulanza con gli angeli anti Covid

Il turno più pesante in Croce rossa in compagnia di Manuela, Cristina e Andrea. Dieci ore di attesa e corse in ambulanza, tutti bardati, perché il virus è ovunque

Dieci ore di servizio per arrivare alle 6 del giorno dopo

Dieci ore di servizio per arrivare alle 6 del giorno dopo

Monza, 5 dicembre 2020  Un bacio e la buonanotte ai figlioletti, poi in macchina fino a Monza per attaccare il turno della notte in Croce Rossa. Dieci ore per arrivare alle 6 del giorno dopo. Stanotte Manuela è il capo-equipaggio. Lei, Cristina e Andrea, un veterano. Stanotte è lui l’autista. Ambulanza 12-81.

Prima di entrare in servizio occorre controllare tutto l’equipaggiamento. La carica del defibrillatore, l’ossigeno, barella, anche quella spinale, gel disinfettante e dispositivi di protezione: guanti, mascherine, maschere, calzari e camice bianco per bardarsi. Perché oggi "ogni attivazione può essere su un potenziale Covid positivo, magari asintomatico". E allora stanotte tocca a Manuela essere la prima a bardarsi appena la centrale operativa di Areu invia l’ambulanza per un soccorso. Completata la check-list, la 12-81 è pronta per diventare operativa. Manuela dà un’ultima occhiata alla lista delle cose da controllare sul tablet dell’ambulanza. Controlla anche lo smartphone del capo-equipaggio. Il telefonino che diventa "il cordone ombelicale con la centrale". Non ti puoi separare da lui in nessun momento. La prima chiamata arriva appena mandato giù l’ultimo sorso di caffè dopo un piatto di pasta consumato nell’area relax del Comitato di via Pacinotti.

Un soccorso a un’anziana. È un codice giallo. In 6 minuti Manuela si deve bardare completamente e l’ambulanza partire. Ne bastano meno. "Ormai abbiamo dei meccanismi automatici, ma nella vestizione gli altri dell’equipaggio danno sempre un occhio". Perché "in ambulanza l’unica cosa che ti può fregare è l’attimo di distrazione. Certo, il rischio zero non esiste, ma abbiamo dei protocolli che garantiscono il massimo della sicurezza. Al supermercato, invece, sei paradossalmente più esposto al contagio". Cristina ha iniziato il suo volontariato a 50 anni, prima in Protezione civile, poi con la Croce Rossa. Un anno e mezzo di corso, l’esame e "ho preso servizio sulle ambulanze un paio di settimane prima che scoppiasse l’emergenza". Il suo primo paziente Covid l’ha soccorso proprio con Manuela. "Credo di aver avuto un attacco di panico - confessa Manuela -. Appena sono entrata in casa del paziente ho sentito l’odore di chiuso della notte e mi sono agitata al pensiero che magari stavo respirando pure il virus. E poi sei tu da solo, il tuo equipaggio, salvo casi di necessità, rimane fuori, pulito. Tensioni che poi ho sfogato piangendo durante il ritorno alla base. Tutto il mese di aprile così. Poi ci si abitua".

Il primo intervento della notte corre in sirena verso il San Gerardo. Niente Covid. Nel parcheggio del pronto soccorso ci si sveste e disinfetta. Andrea bonifica tutta l’ambulanza. Manuela completa la scheda dell’intervento e poi si torna in sede. Fino alla chiamata successiva passano ore. Un giro di caffè, la prima fetta di panettone, una chiacchierata tra i ricordi. Indietro fino "al mio primo intervento da soccorritrice. Con Andrea, su un incidente in via Manzoni. Nella corsa a sirene spiegate pensavo a chissà quale scenario tragico mi sarei trovata davanti, invece è andato tutto bene. A parte che Andrea si è sublussato la spalla". Nel frattempo arrivano altre attivazioni. Interventi neurologici, una ragazza in gravidanza portata al pronto soccorso, una chiamata a Cinisello che poi, però, viene annullata dalla centrale. Si può tornare a tirare il fiato. Con "la tua squadra". Andrea ne va orgoglioso. Anche della Croce che porta sulla divisa che lui ha sposato (insieme alla moglie conosciuta proprio in Croce Rossa) 25 anni fa. Soccorritore, autista e istruttore. Che "non è soltanto insegnare la tecnica del soccorso, ma anche aiutare il paziente con un gesto o una parola rassicurante. E mettersi in gioco per gli altri".

Senza pesare la stanchezza di una notte in cui se ti va di lusso chiudi gli occhi un paio d’ore. Ma c’è la tua squadra. Con cui condividi esperienze e stress. E che diventa un gruppo affiatato. "Ricordo bene quando ho pianto con i miei compagni di squadra, quando sono stato felice con loro, quando rientri e dici: beh dai, con noi tre quel paziente ha avuto un’altra chance. Quella è la nostra paga".