Milano, ecco il St Ambroeus: la prima squadra di richiedenti asilo iscritta alla Figc

Il calcio come mezzo per l'integrazione: nome tipicamente meneghino per la formazione composta interamente da migranti

La formazione del St Ambroeus

La formazione del St Ambroeus

Milano, 18 ottobre 2018 - E’ sabato pomeriggio in una tiepida giornata di inizio autunno. Il sole ancora estivo riscalda l’aria, stare all’aperto è piacevole, figuriamoci prendere a calci un pallone. Ci sono solo fastidiosi moscerini che si attaccano sui vestiti quando si arriva al campo sportivo del quartiere Corvetto, un fazzoletto di erba verde lontano dalla Milano in giacca e cravatta, dalla metropoli che non si ferma mai nella sua rincorsa affannosa al business e al glamour. Qui siamo in periferia, tra case popolari, container e cantieri. Per arrivare a bordo campo o sugli spalti si deve passare per una stradina di ghiaia sconnessa e parcheggiare come si può, prima di calpestare il “sintetico“ di gioco bisogna arrangiarsi nell’angusto e un po’ “datato“ spogliatoio numero 3. Non siamo a San Siro, la tribuna è soltanto un’impalcatura di pali d’acciaio, ma basta eccome per chi ci gioca. Benvenuti nella casa del St. Ambroeus F.C., per certi versi la squadra più cosmopolita della città. Ancor più dell’Internazionale F.C. Il nome è meneghino “doc“, il sangue che più misto non si può. Basta vedere le sagome più o meno atletiche dei giocatori, i loro volti e ti rendi conto che non sei lì per ammirare Mauro Icardi o Gonzalo Higuain, ma puoi comunque divertirti osservando l’impegno del St. Ambroeus. Che non è un club come tanti, ma è la prima squadra composta da richiedenti asilo (quasi tutti di origine africana) a essere iscritta alla Federazione Italiana Gioco Calcio e a debuttare nel campionato di Terza Categoria. Una società che è il fiore all’occhiello di un progetto che va avanti da anni e che vede coinvolti vari soggetti, uniti dalla passione per il calcio e dalla convinzione che questo sia il collante ideale per avvicinare culture diverse. Abbattere muri. Prendere a calci il razzismo. 

Il pallone è il mezzo, l’inclusione il fine. Arriviamoil giorno giusto. Incuriositi. «Dembelè, Dembelè, corri, pressa, insisti... Vai Dembelè, ancora Dembelè», grida Luis Patino, allenatore peruviano in possesso di patentino Uefa (con un passato da portiere di buon livello nella serie cadetta del suo Paese), felicemente in panchina quando non è impegnato come badante. Le urla si sentono ben distanti, ancor prima di varcare il cancello del centro sportivo. Così come arriva forte il coro dei tifosi: “Noi non siamo razzisti“. Sono un centinaio almeno (comprese molte fanciulle), sistemati su seggiolini “datati“ e immortalati dalla brava fotografa Roberta De Palo, una che si dà un gran da fare.

I supporter arrivano puntuali ad ogni partita con megafoni, tamburi e pure fumogeni. Espongono striscioni impregnati di ironia, anche per respingere le minacce e le provocazioni che arrivano sui “social“ (qualcuno su facebook ha suggerito di giocare a pallanuoto, con evidente riferimento ai profughi che quotidianamente affogano nel mar Mediterraneo) ed esorcizzare eventuali paure. Ogni partita è una festa, lo è stata anche quella col Crespi terminata 0-0 che però è valsa il primo punto in classifica proprio nel giorno della grande emergenza (squadra decimata, muscoli doloranti, 5 sospesi dal giudice sportivo, Barry e Marco infortunati, Sekou e Malick incastrati per il lavoro e solo 12 giocatori disponibili, con l’eroico senegalese Laye che decide di giocare nonostante il dolore ad una caviglia) e soprattutto del debutto delle divise ufficiali della squadra, con i colori bianco e rosso, quelli della città di Milano. Tanto impegno, tanto sudore, tanto agonismo ma ilgol non è arrivato. In compenso restano gli abbracci a fine gara con gli avversari, un “terzo tempo“ che non passa inosservato.

Insomma, ci vuol poco a capirlo: il St. Ambroeus non è solo un progetto sociale, ma un gruppo di atleti con degli obiettivi ben precisi e anche se sotto la Terza Categoria nulla c’è e quindi è scongiurato il pericolo retrocessione, la voglia di stupire è tanta. Soprattutto c’è la volontà di diventare una vera squadra capace di essere compatta anche nei momenti più complicati, visto che i ragazzi nella stagione dovranno confrontarsi con avversari tosti dell’hinterland milanese, girando fra Sesto San Giovanni, Pioltello e Cinisello. Dietro il classicissimo e poco sudamericano 4-4-2 del tecnico peruviano, ci sono giocatori (età media 23-24 anni) pronti a sacrificarsi. Ma soprattutto a divertirsi. La tecnica non manca (il più talentuoso è Alex, lavora in un’impresa di pulizie fino a tarda ora) così come la fisicità. Ciò che impressiona, però, è la velocità di certi elementi, a cominciare proprio da Dembelè. E poi l’egiziano Ahmed (soprannominato Kahraba, che vuol dire elettricità). «Non sono uno sprovveduto, ho le mie idee calcistiche, ci sono i giocatori e sono certo che si possa fare un buon torneo», garantisce mister Patino. Il quale prima di essere un allenatore è amico, padre e confidente dei ragazzi, soprattutto, fuori dal campo. Un po’ come Kaliluou Koteh, 24 anni: arriva dal Gambia, fa il presidente-giocatore dopo aver lavorato come falegname in Libia.

La rosa è variegata, lo si intuisce. Ci sono musulmani e cristiani, parlano italiano e francese, arabo e inglese. Alcuni calciatori hanno completato le lunghe pratiche burocratiche nei giorni scorsi, e ad oggi sono una ventina gli elementi in regola con quanto richiesto dalla FIGC; per poter essere tesserati infatti è necessario avere permesso di soggiorno valido, carta d’identità e certificato di residenza o di ospitalità presso il centro di accoglienza di riferimento (altrimenti servirebbe il transfer della federazione d’origine), procedure di cui si occupa in particolar modo il vicepresidente Giuliano Facchinetti, anche lui giovanissimo. Le regole sono poche ma essenziali: allenamenti a Corvetto il martedì e il giovedì dalle 18.30 alle 20 (partite casalinghe quasi sempre alle 15 del sabato) e poi tutti a nanna, nei Cas, i centri di accoglienza straordinaria che ospitano questi ragazzi provenienti dall’Africa. Si intristiscono dietro quei grandi occhioni neri quando qualcuno li chiama «clandestini», perché hanno già visto e sopportato di tutto: umiliazioni e carcere in Libia, paura e disperazione sui barconi della speranza. Giocano a calcio per il piacere di giocare, per rifarsi una vita, per provare a sognare. Hanno un tecnico che non insegna solo schemi e stop di petto, ma che allena anche ad abbattere le barriere.

Che insegna calcio,valori,regole e disciplina. Perché anche i “rifugiati“ fanno fatica ad integrarsi, perché pure per un senegalese era difficile passare la palla ad un’egiziano e viceversa. Niente ingaggi milionari, solo 900 euro l’anno, cioè 75 al mese, 2,50 al giorno. Praticamente quel che resta nelle tasche del migrante dei 35 euro garantiti ogni giorno dal sistema di protezione gestito dagli enti locali. Ma il sogno di tanti è di trovare prima o poi una squadra, uno stipendio, spazzare via gli incubi del passato e ricominciare per davvero. Sognando Cristiano Ronaldo per ora hanno già fatto gol. Che vale molto più della prima, attesissima, vittoria casalinga. 

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