Milano – La “chitarra in perla” di Billie Joe, come la chiama Achille Lauro in “Rolls Royce”, torna a scuotere gli animi degli iDays riportando domenica Mr. Armstrong, Mike Dirnt e Tré Cool sul palco della Maura due anni dopo l’overdose protopunk del 2022.
Se allora la presenza del trio di Berkeley nella più ampia area concerti cittadina era stata una soluzione d’emergenza adottata dal festival per tamponare la voragine aperta in cartellone dal forfait degli Aerosmith, stavolta la scelta è dovuta alla necessità di fare largo alle legioni di fan ricompattate lo scorso gennaio con la pubblicazione del quattordicesimo album in studio, “Saviors”. Quel “Saviors” che, però, affida allo spettacolo solo quattro brani, lasciando spazio alla doppia celebrazione del trentennale di “Dookie” e del ventennale di “American idiot” con l’esecuzione integrale di entrambi (compresa “All by myself”, traccia fantasma dell’album del ’94 intonata per l’occasione da Tré Cool su base di archi registrata). Settantottomilacinquecento anime in tumulto. E sold-out come auspicato dallo stesso Armstrong in occasione di questa sua ultima intervista.
Billie Joe, il Saviors Tour festeggia tre eventi in uno.
"Effettivamente quando siamo entrati in studio a Londra per registrare “Saviors” avevamo un gran numero di canzoni che, una session dopo l’altra, sembravano connettersi proprio con lo spirito di “Dookie” e “American idiot” che, per una strana congiunzione, festeggiano entrambi anniversari a cifra tonda. Così siamo passati, dal non sapere cosa diavolo stessimo facendo, a dire: cavolo, abbiamo colmato il divario che ci separava da quei due album enormi. Fra l’altro coordinati dallo stesso produttore di quest’ultimo, Rob Cavallo".
Corsi e ricorsi del punk.
"No, non intendo quest’ultimo disco come l’ultimo capitolo di una ideale trilogia, ma la prosecuzione di un’unica storia".
E chi sono oggi i “salvatori”?
"Non esistono. O forse sì. E sono quelli che riescono a unirsi, ad aiutarsi a vicenda, sfuggendo alla tentazione di cercare l’uomo forte con la risposta pronta. Non siamo una band politica, ma proviamo a raccontare la confusione dei nostri tempi. L’epoca dei media, della comunicazione. Ma troppa comunicazione incollandoti al telefono o al video finisce con l’inaridire i rapporti umani. E questo ci fa paura tanto come artisti che come genitori".
Lo show si apre con “The American Dream is killing”.
"Punta il dito su quel sogno americano che per tanti è diventato un incubo. Nel mio paese la vita non è più quella tutta lavoro, famiglia, sicurezza, villetta, come ce lo raccontavano negli anni ’50. Quella che sembrava uscita da un dipinto di Norman Rockwell. Penso che l’America di oggi sia uno dei Paesi più divisivi al mondo, asservito ai social, con una popolazione manipolata dagli algoritmi".
Come si fa a incontrare i gusti di una generazione particolarmente volubile come quest’ultima?
"Penso che non ci possa essere altra formula dal mettere in quel che fai un grande cuore e onestà assoluta. Scelta che finisce col renderti necessariamente diverso da quel che sei stato. Sotto questo aspetto io e i miei compagni non abbiamo nulla da rimproverarci, anche perché non ci siamo rintanati nel nostro successo, ma in ogni fase della carriera abbiamo voluto rischiare qualcosa. Io poi a vincere i miei demoni ci ho sempre provato; oggi ci riesco, domani non so. L’importante è non demordere. D’altronde non puoi rimanere uno sventato diciannovenne per tutta la vita".