ANDREA SPINELLI
Cultura e Spettacoli

Vinicio Capossela agli Arcimboldi con l’album “Ballate per uomini e bestie”

Lo spettacolo è ispirato all’"arte pittorica di Bosch e di Brugel tendenti a una sospensione dell’incredulità"

Vinicio Capossela

Milano, 6 ottobre 2019 - Venghino signori... L’orso di Carpazi ridotto a fenomeno da baraccone rappresenta l’allegoria della modernità scelta da Vinicio Capossela per raccontare, domani agli Arcimboldi, le vecchie e nuove fascinazioni del suo ultimo album “Ballate per uomini e bestie”. Il sottotitolo del tour “Di città in città… (e porta l’orso)” prende spunto dalla canzone omonima per sottolineare, infatti, lo slancio circense di questo nuovo giro di concerti atteso pure a Bergamo il 25 ottobre, Varese il 26 e Brescia il 26 novembre. «Un tempo gli orsanti, gente d’Appennino che girava l’Europa con le sue belve ammaestrate, facevano esibire il “re della foresta” sulle piazze come un giullare, un buffone», dice Capossela. «D’altronde nel mondo dell’antropocene, quello disegnato dall’uomo, è destino di tutte le fiere perdere la loro fierezza. Le storie che porto nel mio “cinemascope” da orsante sono, in realtà, un’allegoria della modernità. Quindi per mezzo di figure simboliche come quelle tratteggiate in “Danza macabra”, “La peste”, “Il testamento del porco” o “Nuove tentazioni di Sant’Antonio” provo a parlare di noi e del periodo che stiamo attraversando».

L’approccio zoologico dello spettacolo cosa cambia rispetto quello misterioso e mitologico della Cùpa raccontata nei due tour precedenti? «L’immaginario della Cùpa viene dal mondo rurale e quindi da una cultura di carattere orale, popolare, mentre questo bestiario attinge da una cultura “alta”, con maggiori risvolti poetici e filosofici. Due realtà che in qualche modo si compenetrano, pur mantenendo differenze sostanziali nell’uso della lingua e nel tipo di scrittura musicale».

Parliamo della teatralizzazione di questo “Bestiarium Vinicii”. «Il repertorio e il contesto sono completamente diversi rispetto a “Le canzoni della Cùpa”. Lì c’era un teatro d’ombra, qui un elemento iconografico ispirato più all’arte pittorica di Bosch o di Bruegel tendenti ad una sospensione dell’incredulità».

Ha definito questo suo nuovo lavoro teatrale “uno spettacolo di poesia, filosofia e denunzia!”. Dove sta la “denunzia”? «La denunzia con la “z” riporta indietro nel tempo. Io lo uso per “denunziare” i sintomi di quei malanni che poi spetta ai medici curare; le aberrazioni, le modificazioni, le corruzioni dell’animo in corso. Malattie che fanno parte della storia dell’uomo, come quella peste che nel corso della storia ha travalicato epoche e situazioni. Anche se io parlo soprattutto di pestilenza morale».

Qual è la pandemia più preoccupante dei nostri tempi? «La tendenza a semplificare di ogni cosa, ogni tema, come se in realtà il mondo non fosse la cosa complessa che è. C’è in atto un grande lavoro per premere sullo stato di natura; e si sa che in natura c’è la legge del più forte, c’è il capo branco, c’è la violenza, c’è paura, c’è chiusura, c’è una grettezza fondata sull’ignorare le cose piuttosto che sul conoscerle, rifiutando quella cultura che fa incontrare le menti e ci fa rimanere umani».

Sinceramente, è stato più emozionante ricevere nel ’90 la Targa Tenco per “All’una e trentacinque circa” od oggi per un album a suo modo fuori dagli schemi come “Ballate per uomini e bestie”? «Lo scontro è impari. Nonostante la sorpresa di essere premiato con un disco abbastanza fuori dai canoni, un lavoro di profondità in un momento di immediatezza e musica di superficie, rimane unica l’emozione di rivedermi venticinquenne, al mio primo album, con in mano un riconoscimento di quel tipo sullo stesso palco calcato da Tom Waits solo poche edizioni prima. È stato in quel momento che è iniziata la mia carriera di pianista autistico… segnalabile per la targa».