
Sveva Casati Modignani
Milano, 30 ottobre 2016 - Big lady, anzi (poiché non sopporta gli anglicismi) grande signora dei romanzi d’evasione. Sveva Casati Modignani, o la Sveva, pseudonimo di Bice Cairati. Dopo circa trenta titoli e dodici milioni di copie vendute, sforna un’altra fragrante trama d’ambientazione milanese.
Le piace tanto questa città?
"Poteva rispondere 'sì' Monsieur Henri Beyle, pseudonimo Stendhal. Venuto a Milano al seguito di Napoleone, la trovò bellissima, con ponti e canali che la rendevano ancor più bella di Venezia. E se ne innamorò al punto da definirsi milanese sulla sua tomba, a Montmartre. Sfido uno scrittore straniero contemporaneo a fare altrettanto".
Allora erano tutti romantici.
"E ora a Milano - mai capitale, ma storicamente grande civilissimo borgo di provincia, perciò bellissima - si aggiungono brutture a brutture. Negozi di mutande al posto di librerie. Soprattutto, i grattacieli: un insulto. Soffocano la meraviglia dei nostri tetti rossi. Come se non bastasse, con una pianura ubertosa a disposizione, ricca di rogge, prati e boschi, spunta a Porta Nuova 'il bosco verticale', dai costi immondi".
Il suo modello d’abitazione?
"La capanna dello zio Tom. Ci vivo da sempre, in una stradina dietro via Padova. Costruita quando era ancora viva la mia bisnonna. Ci è vissuta la mia mamma con i suoi fratelli. Io con mio fratello. Poi, mio figlio. Ora, sono sola. I nipoti altrove. Resta un cortile con la fontana, il giardino dove sbocciano tanti mughetti, discreti, profumati, i miei fiori preferiti. Siamo a NoLo (North of Loreto), la cosiddetta nuova Brooklyn ambrosiana, prossimo quartiere hip".
Teme lo snaturamento del suo piccolo paradiso di valori?
"La mia capanna, come per chi se l’è pagata con il sacrificio del lavoro, non vale più niente sul mercato immobiliare. Ad abitare la via Padova sono arrivati gli immigrati, portando non la loro cultura, ma la loro disperazione. In due stanze liberty, fino a 12 persone ammucchiate; per non pagare la luce, le candele. E materassi nel cesso in comune delle case di ringhiera. Sarebbe la politica dell’accoglienza? Dico che è una delle tante malefatte dell’amministrazione comunale".
Nel suo ultimo "Dieci e lode" (Sperling & Kupfer), i protagonisti Lorenzo e Fiamma, ciascuno con un matrimonio sbagliato alle spalle, potranno alla fine risposarsi disponendo ciascuno di un magnifico appartamento, in corso Monforte e dalle parti delle mura spagnole. E continuare a scegliere tra il risotto con foglia d’oro al Biffi Scala, o gli arancini siciliani in piazza Risorgimento. Accade solo nelle favole?
"Scrivo romanzi, tesoro, con personaggi insuperabili. Ma non rinuncio a confrontarmi con il costume sociale e l’attualità. Evitare la convivenza per conservare un legame duraturo, oltre che un mio consiglio, è un libero atto già diffuso".
Problema centrale, comunque, la scuola. Perché?
"Lorenzo, prof di geografia economica in un istituto professionale, me lo ha ispirato mio fratello che insegnava al Cattaneo, amato e rispettato dai suoi allievi".
Più difficili quelli di Lorenzo...
"Sereni, i cinesi. I più frustrati, gli italiani, figli di operai o piccoli impiegati con il terrore di essere licenziati".
Un libro per risollevare le coscienze anche dalla crisi?
"Per comprarselo, la lettrice che incontro alla presentazione nel centro commerciale, il sabato, rinuncia al lesso".
Scelte a livello politico?
"Invece di suonarsela e cantarsela nei cocktail, annunciando interventi a favore della cultura, farebbero meglio, i politici, a impiegare davvero i soldi per le scuole che cadono a pezzi".