
Alessandro Mannarino
Milano, 2 aprile 2017 - Ci sono i colibrì e c’è la foresta lussureggiante, c’è la notte e ci sono sia la donna che la luna. Come in una tela di Rousseau, il nuovo spettacolo di Alessandro Mannarino utilizza pennellate primitiviste per raccontare la liberazione dell’inconscio e gli onirismi di una vita psichica tanto libera quanto gioiosa. Così il leone sprofondato nella vegetazione che ne “Il sogno” del pittore francese guarda il visitatore con occhi sgranati finisce per assomigliare tanto a lui, quasi attonito ogni sera davanti al Carnevale di anime che scatena questo “Apriti Cielo Tour” con cui approda domani e martedì nel ventre febbricitante di un Fabrique esaurito ormai da mesi, nell’attesa di tornare allo stesso indirizzo pure il 18 aprile. «Il mio intento è quello di raccontare una storia e vedere il percorso che ho fatto con questi quattro album» ammette Mannarino, 37 anni, che sul palco è accompagnato da tre coriste fasciate in eleganti abiti da sera (sexy e sfacciatamente fetish quello con cui cantano “Quando l’amore se ne va”) e da una band di nove elementi impreziosita dal percussionista brasiliano Mauro Refosco (David Byrne, Red Hot Chili Peppers, gli Atom for Peace di Thom Yorke).
«Dal palcoscenico si vede un’Italia bellissima, piena di risorse» prosegue. «Un’Italia da incoraggiare e da motivare, soprattutto oggi che basta accendere la tv o aprire i giornali per trovare una voce unica che ti dice: lascia stare. Da bambino, a Carnevale, sognavo di travestirmi da Zorro e invece mia madre mi metteva puntualmente il costume da Pierrot, con la lacrimuccia dipinta sulla guancia. Così adesso, quando vado in scena, mi vesto spesso di nero perché me la sono cucita da solo con la chitarra la mia maschera per la festa». E la festa in questo tour è soprattutto in sala, durante brani in bilico tra Ostia e Copacabana come “Elisir d’amore” o “Arca di Noè” da cui il cantautore romano sembra affiorare come un figlio illegittimo di Franco Califano e di Maria Bethania. «Nei miei viaggi in Sudamerica sono rimasto molto colpito dal fatto che a Rio de Janeiro il quartiere più ricco della città, Leblon, e una delle favelas più povere, Rocinha, sono separati solo da una strada» spiega. «Il Brasile non può certo essere preso come esempio di equità sociale. Ma, a mio giudizio, va considerata la coscienza della sua gente. Quella per cui la vita va vissuta fino in fondo almeno una volta l’anno. Perché la carne-vale; e lo schiavo cesserà di essere tale solo nel momento in cui non aspetterà più il paradiso, pensando solo alla vita di lassù, ma cercherà di dare valore e dignità pure a quella di quaggiù». Proprio la ricerca della felicità è il filo rosso che, sul palco come su disco, lega i brani di “Apriti cielo” all’interno di una scenografia in cui ruote dentate e pulegge della razionalità fanno da cornice alle foreste e ai cieli trapunti di stelle cadenti del sogno.
«Queste nuove canzoni possono sembrare una fuga, ma in realtà sono un rifiuto. Di arrendersi» prosegue Mannarino. «Nel ‘Bar della rabbia’ del mio primo disco mi aggiravo tra pagliacci, prostitute, barboni, e tutta un’umanità marginale barricata lì dentro per non farsi ferire dalla società. Nel secondo disco ho provato a uscire dal ghetto e ad affidare l’urgenza della ribellione a donne forti come Maddalena o Marilù. Nel terzo ho provato a demolire molti dei miei concetti culturali, a cominciare dalla religione, dalla divisa militare, dalla giustizia così com’è intesa oggi dal nostro ordinamento. In quest’ultimo, invece, provo a sciogliere le vele e a prendere il largo alla ricerca di nuove terre da esplorare». Viaggio lungo, euforico, colorato. E di gran successo.