MILANO – “Dovete concedere a voi stessi di non essere bravi e di scrivere male. Fatelo e rifatelo. Anche le prime bozze dei migliori sceneggiatori e registi che hanno vinto premi Oscar sono terribili: questo è il processo creativo. Essere scrittori e artisti è un dovere sacro e una responsabilità: l’universo si riversa energeticamente dentro voi, fatelo uscire, altrimenti tanti personaggi non vedranno mai la luce”. È il consiglio di Meg LeFauve agli studenti. La sceneggiatrice dei due capitoli di Inside Out è a Milano, all’università Cattolica, per un’immersione nel capolavoro Pixar (coprodotto da Walt Disney Pictures): lezione alla città, confronto con i giovani del master in International Screenwriting and Production e della laurea magistrale “The Art and Industry of Narration“, diretti da Armando Fumagalli.
“Inside out“ sta crescendo insieme a una generazione: è un film necessario oggi? Si parla spesso di giovani fragili...
“Come narratori penso che il nostro compito sia scoprire ed esprimere la condizione umana. Che è un insieme di esperienze e di modi di essere, che vanno dalla forza alla fragilità. Spesso nascondiamo la fragilità. Il nostro compito è portarla a galla. In modo divertente e piacevole per la Pixar, così non ci si sente soli. È speciale lavorare a quei concetti per il pubblico adolescente”.
Le emozioni non sono tre o quattro. C’è una giungla. Come avete scelto i protagonisti?
“Gioia è un personaggio molto “genitoriale“. Pete Docter (il regista, ndr), ha pensato a sua figlia 11enne: “Devo entrare nella sua testa per capire dov’è finita la gioia“. Kelsey Mann (regista del secondo capitolo, ndr), sapeva che Ansia sarebbe stata il personaggio in arrivo, come antagonista, anche se ha buone intenzioni. L’ansia è sempre in buona fede, spesso ha solo un pessimo piano. Abbiamo dovuto imparare - ho dovuto farlo anch’io, che soffro d’ansia - che non è cattiva. Mette tutto in crisi, ma sta cercando di aiutarci”.
C’è qualche emozione che aggiungerebbe oggi?
“Tutte sono utili. Ne abbiamo esplorate molte: vergogna, senso di colpa, il disprezzo di sé, che però può essere autodistruttivo, troppo cupo e pesante. A me piace molto Schadenfreude (il gioire delle disgrazie altrui), ma aveva solo una battuta, non ce l’ha fatta. Potrei continuare”.
Terzo capitolo in arrivo?
“Sono d’accordo con Amy Poehler (la voce di Joy, ndr): dovremmo fare un film ogni sette anni, come un controllo di crescita, ma deciderà Pete Docter”.
Ci sono scene ispirate alla sua vita?
“Molte. Riley che dice ai suoi genitori: “Vorreste che io sia felice, ma non lo sono” è quello che volevo dire a 11 anni, ma non ero abbastanza coraggiosa. Riley può esserlo e liberare la tristezza dei suoi genitori. C’è la scuola materna dei miei figli, incentrata sull’intelligenza emotiva, nel sedersi a guardare la tristezza. E sono ansiosa, quindi ci sto dentro”.
Quanto è stata importante la scuola per la sua carriera?
“Ho studiato per diventare scrittrice e sceneggiatrice, poi mi sono laureata e ho pensato: “Non ho niente da dire, chi sono io per scrivere una storia?”. Ho lasciato e sono diventata produttrice. Ho lavorato con Jodie Foster per 10 anni, ma ho capito: “Avrò 80 anni e non saprò mai che storia avrei potuto scrivere“. Ho smesso. E tutti pensavano fossi matta: è la persona migliore per cui lavorare. Da 10 anni scrivo e cerco di diventare scrittrice”.
Si sarebbe mai aspettata un successo simile con Inside Out?
“Una donna che non conoscevo mi ha raccontato di essere andata al cinema con sua figlia di 12 o 13 anni. Le ha detto: “È così che mi sento sempre”. Sua madre non sapeva soffrisse di ansia. Al di là del successo, che fa piacere, abbiamo dato un linguaggio a genitori, insegnanti, alle persone che lavorano con ragazzi con bisogni speciali. Meraviglioso”.