Milano – In “Due di due” ha raccontato il suo Berchet, "che nella forma era già estremamente vecchio in un mondo che continuava a cambiare". Lo scrittore Andrea De Carlo inquadra così il “peccato originale” dei licei classici, che a Milano quest’anno hanno perso 500 studenti e che sono in cerca di rilancio. "Ero convinto che chi avesse letto il mio romanzo anni dopo si sarebbe chiesto che razza di scuola potesse essere quella, perché sarebbe stata cambiata, riformata".
E com’è andata rispetto ai pronostici?
"Non è successo ed è un peccato per chi inizia il percorso liceale. Le iscrizioni sono scese vertiginosamente e mi danno ragione dell’incapacità di riformare il corso di studio. Molti degli elementi all’origine sono giusti: è utile approfondire la conoscenza delle materie umanistiche, italiano, greco e latino. Ma non nel modo in cui venivano insegnati".
Ovvero?
"Nozioni e declinazioni infinite: un metodo inefficace e un accanimento. La dimostrazione? Chiunque non ha continuato a coltivarli dopo il liceo si è dimenticato sia il greco sia il latino. Stiamo ripetendo gli stessi errori. Sono convinto che se il Classico non riuscirà a rinnovarsi perderà ancora studenti, che prendono altre strade. È un discorso che riguarda più in generale la scuola, che ha bisogno di grandi investimenti, sin dalle elementari. Con programmi studiati e aggiornati da comitati competenti, insegnanti pagati e formati meglio, luoghi fisici più curati. Mi è capitato di tornare al mio vecchio Berchet: era identico a come me lo ricordavo, persino gli intonaci. Non vedo nei programmi di partiti e governi traccia dell’importanza che dovrebbe avere la scuola".
Perché lei scelse il Classico?
"Avrei voluto iscrivermi all’Artistico, mi piacevano le arti figurative, allora considerate poco serie, altro cliché. Il classico era il liceo più formativo per le famiglie, ma il sentore di museo era già forte".
E oggi? Cosa sceglierebbe?
"Sempre l’Artistico. La strada poi si trova, qualunque sia la scelta, ma sarebbe molto utile avere in quei cinque anni più informazioni possibili sul mondo, scoprendo le capacità che ciascuno ha, stimolandole. Il liceo non deve essere necessariamente divertente, non è un luna-park: la fatica fa parte dell’apprendimento. Ma deve essere in contatto con il mondo che cambia. Se percepisci quello che studi come completamente slegato si perde l’interesse di base".
Cosa le ha lasciato però il suo “vecchio” Berchet?
"L’impegno nell’affrontare i problemi non solo sulla superficie, ma andando in profondità, con persistenza e continuità. Germi che sono maturati poi, libri letti lì, come la trilogia degli antenati di Calvino, che in un contesto molto uniforme diventavano luci vivide, accendevano l’attenzione".
C’erano già allora professori che remavano controcorrente?
"Ricordo i professori di allora come preti che leggono testi senza convinzione, ma le eccezioni c’erano sì. A uno in particolare sono grato, Mario Cicognani: un poeta intelligente e non convenzionale, che in quel mare di noia e ripetizioni ci stimolava con testi che ci costringevano a ragionare. Mi stupisco quando incontro studenti che si riconoscono ancora in quelle situazioni, anche se la disciplina dittatoriale del ginnasio è svanita e si vedono prof bullizzati e minacciati dalle famiglie. Tra i due estremi credo ci sia un grande terreno in cui si possono insegnare tante cose con fantasia, suscitando interesse".
Molti licei a Milano stanno potenziando il Classico: arti, lingue e scienze da settembre entreranno massicciamente nell’orario scolastico. Servirà?
"Può essere una chiave solo all’interno di una riforma pensata. Se ci si limita a inserire visioni commentate di film o serie tivù o qualche nozione di lingua straniera è come aggiungere prezzemolo sul piatto. Serve una riforma più complessiva che può nascere solo dall’interazione con gli studenti".