
Tangentopoli: Bettino Craxi interrogato in Tribunale
A ogni decennio, il proprio scandalo. A ogni stagione, il proprio immobiliarista. Gloria, altari di vetro e acciaio, e polvere di cemento e sottoscala di Palazzo di Giustizia. Ebbrezze e cadute vertiginose. La mente ripercorre le annate giudiziarie, e vola in automatico al 1992, per calcolare quando, l’ultima volta, in sei finirono agli arresti come oggi. In principio, come al solito in questi casi, fu l’archetipo. Mani Pulite. I sette milioni di lire nelle mutande, Mario Chiesa e l’appalto per le pulizie del Pio Albergo Trivulzio. Il crollo della città del socialismo, la caccia a Craxi, le file di indagati che uscivano o in manette o dopo aver fatto qualche nome. Lì sì, tangenti fruscianti in tagli da centomila. Oggi, meno tracciabili ipotesi di consulenze, bonificate e cresimate, dall’innocua apparenza.

Ma Milano cresce veloce, cambia faccia e dimentica in fretta i guai con una Procura che è come il Vesuvio, silenziosa fin quando non esplode. Basta guardare agli ultimi quindici anni, per saggiare la capacità di una città di caucciù di incassare i colpi, indignarsi e poi ricominciare daccapo.
In tanti ricordano Salvatore Ligresti che, su ordine dei pm di Torino, finì ai domiciliari in un altro luglio, quello del 2013. In carcere le figlie Jonella e Giulia, scampò al blitz il figlio, Paolo, che era in Svizzera. Falso in bilancio, false comunicazioni sociali, manipolazione del mercato. Lo scandalo fu rubricato col nome dell’azienda assicurative di famiglia FonSai, che i Ligresti comprarono con i soldi, tanti, frutto dell’immobiliare. Come il padre di Manfredi Catella, Salvatore aveva origini siciliane, che conosceva bene, come il figlio è stato il volto di un boom edilizio, quello degli anni Ottanta, la Milano modernizzatrice della pubblicità del celebrato amaro. Ma le similitudini finiscono qui. Ligresti, tenace e popolare, partito dal basso, non aveva la figura elegante, il portamento di Catella. Ma arrivò lo stesso a comprarsi un ricco pezzo della finanza italiana. Poi, il crollo e l’oblio. E Milano che volta pagina.

Non è l’unico “caso“ a finire nei faldoni degli archivi di una memoria lacunosa. Alzi la mano chi si ricorda per quale motivo finì nei guai Filippo Penati, che per anni fu l’unico Ds-Pd vincente in una Lombardia di centrodestra. A stento, si avrà memoria delle espressioni come Sistema Sesto e scandalo Serravalle. Affari immobiliari, azioni di autostrade comprate e vendute, progetti, arresti, scontri politici, assoluzioni e prescrizioni. Con Formigoni e lo scandalo della sanità non si arrivò alla cella prima della condanna. Ma i rimborsi agli istituti privati di ricerca misero fine a una lunga stagione di governo, una quasi monarchia, che portò alla nascita di uno dei primi grattacieli milanesi della nuova epoca verticale, Palazzo Lombardia. Formigoni, orgoglioso, a far la gara per l’altezza, fra guglia e piani calpestabili con la vicina Torre Unicredit e la sua guglia arrivata in volo. L’inizio della fine fu il crac del San Raffaele di Don Verzé nel 2011. Ci rimise la vita Mario Cal, il direttore finanziario, 71 anni.
Tanti gli scandali all’ombra della Regione, da quello dei rimborsi dei consiglieri, all’arresto e la condanna definitiva di Domenico Zambetti, fino al carcere e all’assoluzione per Mario Mantovani. E poi l’inchiesta Expo, che rischiò di paralizzare l’evento, nel 2015, con Beppe Sala commissario straordinario, poi indagato e processato quando già era sindaco. E ogni volta, un bisbiglio, un “l’avevamo detto”. Salvo congratulazioni postume in caso di proscioglimento. Nel 1992 furono gli stilisti, persino, a sospirare di sollievo per essersi liberati delle esose first-sciùre della politica locale, che pretendevano abiti (gratis) a ogni cocktail. A Milano, oggi, sui muri non si legge più “Grazie Di Pietro“. Ci sono le “decine” di lettere in Procura “per ringraziare”. E le 4.500 famiglie che hanno pagato anticipi di case finite sotto sequestro. Meno felici.