
Franco Branciaroli
Milano, 11 marzo 2018 - «Gli attori sono i più grandi cornuti del mondo. È sufficiente che la moglie telefoni alle 21.05 in teatro accertandosi che lo spettacolo sia in scena, per stare poi tranquilla due ore. Tanto su quel palco nessuno ti può sostituire». Una visione poetica del teatro. «Noi attori non siamo normali. Certo l’arte mi ha regalato la conoscenza della drammaturgia. D’accordo. Ma è una schiavitù. Dal 1970 ho saltato una sola replica, anzi un secondo atto in Sardegna, per intossicazione alimentare. È incredibile a pensarci: ogni sera davanti a quella tenda rossa, girando alberghi e ristoranti. Quaranta e passa anni di stanze d’hotel, potrei aprire un’agenzia. Credo sia una di quelle cose che ti deforma il cervello. Tu non te ne accorgi, ma la gente capisce che non l’hai passata liscia». E invece all’apparenza Franco Branciaroli è parecchio in forma. Non solo di testa. Tanto da indossare nuovamente i succinti panni di “Medea”, nella celebre versione ronconiana (ripresa qui da Daniele Salvo). Sono passati vent’anni. Ma da martedì lo si ritrova al Piccolo. Allo Strehler. In sottoveste nera e tacchi rossi. Intorno a lui un nutrito cast. Il resto è sempre e solo Euripide. Al maschile.
Branciaroli, come nacque il lavoro? «Ronconi aveva da tempo il desiderio di fare una Medea interpretata da un uomo ma non voleva realizzarla con gli Stabili, era certo che la cosa avrebbe suscitato reazioni sfavorevoli (come infatti avvenne). Allora gli dissi: “Se tu ti limiti, te la produco io”, e lui riuscì a non sforare il budget di un euro».
Perché riprenderlo a distanza di vent’anni? «Per quanto un attore possa essere considerato bravino, in una carriera sono al massimo quattro o cinque le grandi interpretazioni, quelle perfette. Medea è una di queste. E poi migliora con l’età».
Perché affidarla a un uomo? «È la nipote del Sole, sceglie lei il marito, proviene da una civiltà matriarcale, è una maga, rappresenta la cultura del divino. “Ma gli dei antichi qui non esistono più?” Ed è questo il cuore della faccenda. Non le interessa il sesso ma la fedeltà agli dei. Una Medea uomo perché non è quindi semplicemente una donna ma un intero pensiero, è un’alterità, perfino un inganno. Chi può davvero pensare che Euripide metta in piedi un capolavoro su un raptus di gelosia?».
Le altre interpretazioni della vita? «Il Teatrante di Bernhard, l’Ham in “Finale di Partita” di Beckett, il Re de “La vita è sogno”, Riboldi Gino in “Exitu” di Testori. Questi mi sono riusciti proprio bene».
È devoto al teatro, pochissimi i film. «Ma “specializzati”: ben cinque lavori con Tinto Brass. L’ultimo dei cineasti all’italiana. All’epoca girava bene, con classe».
Ronconi? «Il più profondo conoscitore del teatro. A livello mondiale».
Carmelo Bene. «Un outsider, altra categoria. Uno di quei personaggi carismatici che inglobano i testi e li sputano fuori. Un autore».
Tocca a lei: cosa la rende speciale? «Ho un dono di natura, una grazia. Ma non ho alcun merito. L’attore è solo dotato, per il resto può perfino essere un cretino».
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