
Daniel Oren
Milano, 9 maggio 2018 - Benvenuto alla Scala, Maestro Daniel Oren. Il direttore d’orchestra israeliano per la prima volta sale sul podio del Piermarini per dirigere “Aida” di Giuseppe Verdi, fino al 3 giugno, regia storica di Franco Zeffirelli in occasione del suo 95esimo compleanno. Nato a Tel Aviv nel 1955, dove attualmente risiede, Oren ha diretto le maggiori orchestre internazionali, fra cui l’Accademia di Santa Cecilia di Roma, i Berliner Philharmoniker, l’Orchestra della Rai e quella del Maggio Musicale Fiorentino. Al repertorio sinfonico ha affiancato, con intelligenza, l’interpretazione del repertorio operistico romantico italiano e francese. Collabora con l’Opéra Bastille di Parigi, lo Staatsoper di Vienna, il Covent Garden di Londra, il Metropolitan di New York.
Maestro, quando ha capito che sarebbe diventato un direttore d’orchestra?
«Mai. Non sono stato io a deciderlo, ma mia madre, classica mamma yiddish. Mi ha suggerito di studiare pianoforte, violoncello, canto. Si è formata alla Sorbona, ha un intuito formidabile e quando ho compiuto 13 anni ha trovato un insegnante disposto a darmi le lezioni di direzione. Il dilemma è arrivato con il militare, in Israele si parte per tre anni, un’interruzione enorme. Ho vinto un concorso e a 17 anni sono stato ammesso alla Hochschule di Berlino, questo mi ha permesso di lavorare giovanissimo con von Karajan».
Fra i tanti paesi in cui ha vissuto a quale è più riconoscente?
«All’Italia, dopo i primi concerti a Santa Cecilia e la direzione di Manon Lescaut con la grande Kabaivanska, mi sono fermato qui per quasi 20 anni. Amo il canto, sono anche cantante. La conoscenza della lirica che hanno le vostre orchestre, la passione che dimostra il pubblico, sono introvabili altrove».
È la sua prima volta alla Scala.
«Un traguardo, la mia generazione ha vissuto carriere lunghe, senza mai bruciare le tappe. Sono arrivato qui dopo tante esperienze musicali. Ho trovato un livello altissimo, ogni singolo musicista dell’orchestra, i cantanti del coro, sono tutti fantastici».
La regia è di un suo amico.
«Ho lavorato spesso con lui, ha la capacità geniale di trasformare ogni scena in un quadro d’autore. Franco sa scavare con profondità i personaggi. Da lui ho solo imparato».
Cosa porta sempre con sé?
«La Bibbia. Nei primi anni di carriera mia madre viaggiava con me e al testo sacro portava la fotografia del bimbo con le braccia alzate, scattata nel ghetto di Varsavia nel 1943».
Ricordati, è il grido dell’uomo dei Salmi. Secondo lei, cosa stiamo dimenticando?
«Stiamo diventando belve, uno contro l’altro anche fra artisti, fra i popoli. Il conflitto con i nostri cugini (palestinesi ndr) mi dà un dolore infinito. Non ci sono ideali, siamo in mano ai politici, anche in Europa: la gente comune vuole la pace».